Enrico Letta ha certificato nel modo più chiaro che la sigla Pd non indica più quel partito privo di identità, dal nome piuttosto anodino di “democratico”, ma vuol dire Partito draghiano. Ecco l’identità finalmente trovata! Nella democrazia parlamentare italiana, abbiamo visto nel corso degli anni gli esecutivi farsi e disfarsi, cadere in parlamento per pochi voti (da ultimo, il governo Conte 2, che pure piaceva molto al Pd, prima che s’invaghisse dell’ex banchiere centrale), ma sembra che la ferita inferta dai 5 Stelle (che sono stati poi solo una parte del problema), non votando la fiducia a Draghi, sia l’unica insanabile. Tuttavia, non foss’altro che per la composita maggioranza di “unità nazionale” che lo sosteneva e ne determinava il raggio d’azione per forza di cose limitato, come potrebbe quel governo essere l’ideale di un partito che dovrebbe avere un’agenda sua propria? Così Letta butta a mare una proposta politica come quella del “campo largo”, coltivata e fatta crescere da tempo nel suo elettorato, per inseguire un fantasma e tener fermo al puntiglio di un momento.
Soprattutto, però, al già addormentato giovinotto invecchiato risvegliatosi con improvvisi “occhi di tigre”, andrebbe regalato un pallottoliere. Da anni, non da mesi, i sondaggi danno le destre stabilmente al 46-47% dei voti; si può anche immaginare che questa percentuale risulti alla fine più contenuta, ma il successo del cartello delle destre (al netto della loro successiva tenuta interna) appare scontato. E del resto nell’ultimo anno e mezzo, nel Paese, non si sono visti cortei con cartelli inneggianti a Draghi, quanto piuttosto forme di agitazione qualunquistico-reazionaria, a tratti anche accese. A questa situazione come intende rispondere il segretario del Pd? Con una insignificante listarella denominata “Democratici e progressisti”, che riunirebbe l’Articolo uno di Speranza (che non può aspirare a più di un 2%), il Psi di Nencini (postcraxiano, prerenziano, renziano, postrenziano: comunque lo zero virgola qualcosa) e Demos, l’unica “realtà” di qualche significato, sebbene non valutabile in termini di voti, vicina alla Comunità di Sant’Egidio.
A ciò potrebbero aggiungersi, a quanto pare – non dentro alla listarella allargata ma in coalizione –, Calenda (personaggio di per sé più macchiettistico della parodia che ne fa Maurizio Crozza) e Bonino, già ex sodale di Renzi con +Europa alle elezioni del 2018, quando Calenda era ancora più o meno nel Pd, con cui nel 2019 si fece eleggere, pronto a cambiare casacca, al parlamento europeo. Parliamo di una formazione che, nella migliore delle ipotesi, arriverebbe al 5%. Si profila così uno sfracasso peggiore di quello del 2008, quando il Pd di Veltroni con la sua “vocazione maggioritaria”, e tuttavia in alleanza con il pregrillino Di Pietro, si collocò a una decina di punti di distacco dalla coalizione berlusconiana arrivata quasi al 47% (proprio come potrebbe essere oggi, ma con rapporti di forza mutati al suo interno).
Tra l’altro, un elettore di centrodestra, scontento dell’andazzo preso dalla coalizione un tempo puramente berlusconiana, sarebbe semmai più attratto da un Calenda che si presenti per proprio conto, anziché da una coalizione di cui è motore il detestato Pd. Nel quadro che si va delineando, invece, la furbata di Letta consisterebbe nel lasciare solo a Renzi e agli eventuali frammenti fuoriusciti dal partito berlusconiano, come Brunetta, di presidiare quel versante dello schieramento politico, con la conseguenza di una probabile dispersione dei voti (si ricordi che esiste uno sbarramento al 3%), cosa del tutto deleteria quando si tratti di competere – con un sistema il cui carattere maggioritario è rinforzato dal taglio del numero dei parlamentari – seggio per seggio, in tutti i modi, con il cartello delle destre.
Idem a sinistra. Un Pd ormai spostato sulla posizione sostenuta da sempre dai suoi renziani interni, contraria all’alleanza con i 5 Stelle, come potrebbe arrivare a un accordo con i verdi e Sinistra italiana, che nel frattempo hanno stretto un patto tra loro? Anche questo piccolo raggruppamento, spinto fuori dall’alleanza, sarebbe sul filo della dispersione dei voti. Perché – grande ritrovato – scatterebbe pur sempre il richiamo del “voto utile” al partito più grosso, per togliere all’estrema destra di Fratelli d’Italia se non altro la soddisfazione di raggiungere la maggioranza relativa.
Sotto qualsiasi aspetto si voglia considerare la cosa, gli occhi di Letta appaiono afflitti da miopia. Anche perché, nonostante i migliori auspici iniziali (lo stesso “terzogiornale”, con due articoli del nostro compianto Aldo Garzia, aveva aperto a Draghi: vedi qui e qui), l’esecutivo di cui oggi si lamenta la perdita, pur non essendo stato il peggiore dei governi possibili, ha evitato, e non poteva essere altrimenti, di porre mano a quella ridistribuzione del reddito di cui il Paese avrebbe bisogno. Sono stati dati dei bonus, ma a trecentosessanta gradi. Sul piano della riforma del fisco, soltanto una riformetta dell’Irpef che ha avvantaggiato soprattutto i più abbienti; nel campo della giustizia, una controriforma che ha scontentato i magistrati; in materia di sanità, pressoché nulla, proseguendo ancora oggi la penuria di medici e infermieri, l’intasamento delle strutture di pronto soccorso, e l’assenza di un sistema centralizzato di tracciamento e sorveglianza della pandemia. L’unico successo che il governo uscente può vantare è quello di una rapida e riuscita campagna vaccinale. E inoltre l’implementazione del Pnrr, la missione a cui era stato prioritariamente chiamato, ma sulla quale è troppo presto per esprimere un giudizio complessivo, se si pensa ai risultati ancora incerti degli investimenti nel Mezzogiorno.
Infine, la guerra. Non c’è dubbio che l’Ucraina andasse difesa anche con l’invio di armi. Bisognava impedire che fosse semplicemente cancellata, come nelle intenzioni iniziali di Putin. Ma oggi che la guerra ristagna in un batti e ribatti, non sarebbe più saggio ammettere che a un “cessate il fuoco”, a un armistizio, sarebbe possibile arrivare solo sul presupposto di una divisione dell’Ucraina? Certo, lungo una linea che penalizzi il meno possibile il Paese aggredito, che sia sottoposta a controllo internazionale – il che però non garantisce affatto per il futuro –, e comunque dando vita a una conferenza di pace, di cui non sembra che Draghi (come pure, in verità, nessun altro dirigente europeo) abbia inteso lanciare la proposta.
In conclusione, con il suo draghismo acritico, privo di qualsiasi realismo politico, Letta si sta cacciando in una sconfitta dopo la quale al più riuscirà a conservare la segreteria del Pd, potendo vantare di avere fatto del Pd il primo partito italiano. Ma a quale prezzo per tutto lo schieramento democratico e per il Paese?