Abbiamo dinanzi elezioni che la sinistra non può vincere, ma può forse riuscire a perdere nel modo più indolore possibile, scomponendo le forze e mischiando bene le carte. Al voto del 25 settembre il centrosinistra si presenta pressoché nelle stesse condizioni del 2018, quando le forze di destra segnarono un indubbio risultato positivo, mitigato solo dall’eccezionale e irripetibile affermazione dei 5 Stelle, che comunque confluirono nel governo gialloverde con la Lega. Il Pd si trova dinanzi all’evidenza dell’inaccettabilità di un “campo largo”: sia per la divaricazione strategica, sia per la rottura fra le due forze che la caduta del governo Draghi ha comportato, e anche perché gli stessi grillini sembrano all’inizio di un processo centrifugo che sparpaglierà l’ex gruppo di maggioranza relativa lungo tutto l’arco politico.
Un’eventuale affermazione del partito di Letta, che contende alla Meloni la palma di prima formazione politica del Paese, non cambierebbe di molto il senso generale. Anzi, avrebbe il sapore beffardo di raccogliere voti che non potranno in alcun modo concorrere a una maggioranza di governo. Ammesso, infatti, che le forze del centrosinistra – Pd più cespugli vari che confluiranno nel “campo stretto” – possano arrivare al 25-28 %, persino con un exploit al 30, poco muterebbe circa il futuro inquilino di Palazzo Chigi.
Sul fronte opposto, la destra, con il cemento di un’agognata presa del potere, camufferebbe rapidamente le proprie divisioni, realizzando un’alleanza che fra Fratelli d’Italia in crescita, stimati attorno al 22-24 %, Lega in declino – ma pur sempre forte di un 15 % circa accreditato – e Berlusconi, che con il suo impero mediatico già in campo potrebbe non essere distante dalll’8-10%, taglierebbe il traguardo della maggioranza assoluta, irrobustito dalle componenti centriste (i Cesa, i Lupi e i milanesi di Cl).
Ma il pallottoliere algebrico non basta a darci la misura di un’eventuale vittoria della destra: la legge elettorale, distorta dall’improvvisata e avventuristica riduzione dei parlamentari – 400 alla camera e 200 al senato –, voluta dagli uomini di Conte, rischierebbe di amplificare i numeri dell’affermazione elettorale, spingendo le forze reazionarie vicino a una soglia, grazie alla quale la stessa Costituzione sarebbe a rischio.
Certo, siamo nel campo dei “se” e dei “ma”. In ogni caso la rigidità delle opzioni che si profilano per il centrosinistra non permette alcun ottimismo. Letta e compagni hanno solo da sperare in una convergenza di cespugli – come Calenda, che non mostra certo entusiasmo per il ritorno a Canossa, o come del resto Renzi e la stessa Bonino – per fortificare il ridotto elettorale in cui potrebbero arroccarsi. Ammesso, peraltro, che queste eventuali convergenze non producano altri strappi nell’elettorato democratico, come l’eventualità di un ritorno al Nazareno dell’ex segretario toscano già lascia intravedere.
In questo quadro, diventa indispensabile e urgente lanciare, da parte di tutte le forze, una mobilitazione di difesa costituzionale, che spinga al voto aree e interessi che non trovano al momento sollecitazioni e ragioni per scegliere ancora una volta il meno peggio. Come nel 1953, in occasione della mitica mobilitazione contro la cosiddetta legge truffa, con cui la Dc voleva archiviare quella sinistra – Pci e Psi, forti di uno straordinario radicamento sociale e geografico –, riducendo ogni dialettica parlamentare, bisogna oggi scovare nelle stesse forze della destra enclave culturali ed economiche interessate a salvaguardare l’ancoraggio europeista e occidentale del Paese.
Una vittoria larga di Meloni e Salvini, che contano già oggi sul fuoco di sbarramento comunicativo che sta arrivando sulla rete da Oriente, inevitabilmente porterebbe il nuovo governo a volere, e potere, rinegoziare le ragioni di adesione dell’Italia all’Europa, strappando legami e solidarietà che sostengono la nostra democrazia. Già da Mosca arrivano le prime sirene, che annunciano condizioni di estremo favore per la nostra economia nel campo dei rifornimenti energetici. Già la Meloni, nel suo virale intervento dinanzi alla destra spagnola, ha parlato di un Paese da recintare nei confronti dell’immigrazione mediterranea. Ma soprattutto sono in discussione meccanismi sociali – pensiamo ai sistemi di sostegno del sindacato e del movimento cooperativo – e istituzionali – le garanzie rispetto a strette autoritarie che i contrappesi procedurali ancora assicurano – che la destra vorrebbe omologare a un’idea di Stato autocratica.
Inoltre, bisogna giocare la carta dell’autonomia, sollecitando quelle forze (penso a governatori come De Luca ed Emiliano al Sud, oppure l’emiliano Bonaccini al centro) per arrivare anche al cuore del potere leghista nel lombardo-veneto, dove una rottura con i legami economici con il Nord Europa porterebbe a una devastazione sia del sistema di finanziamento del welfare sia delle economie incentrate sull’esportazione.
Bisogna scomporre le interlocuzioni, mettendo in campo forme territoriali di autorappresentazione, per sottrarre alla destra sia consensi di risulta sia soprattutto il beneficio di astensionismi che colpirebbero le aree metropolitane, dove più rilevante è il radicamento del centrosinistra. Ovviamente, per questa guerriglia politica, che deve agire dietro le linee dell’avversario, non ci si può presentare solo come i ventriloqui di Draghi. Il presidente del Consiglio dimissionario rimane un potente testimonial della nostra adesione all’Europa e un utile garante per una possibile alternativa politica, ma non può essere l’unico orizzonte. L’“agenda Draghi” contempla anche temi e provvedimenti che devono essere modificati radicalmente: penso proprio al tema della concorrenza, in cui dobbiamo giocare la carta fino in fondo, lasciando i ceti parassitari alla destra, ma recuperando con forza le aree più legate a una trasparente competizione; così come all’intero capitolo digitale, nel quale il ministro Colao aveva avviato, nel disinteresse generale, un’azione di privatizzazione surrettizia di funzioni strategiche come il cloud nazionale e la rete unica.
Su questi temi, va messa in campo una controprogrammazione che tenga insieme ceti imprenditoriali competitivi, e forme di ricerca e di lavoro innovativo. Infine, la sanità. Sull’eredità di Speranza la destra sparerà ad alzo zero. Non credo che sia né saggio né utile arruolarsi nei templari della politica sanitaria di questi anni. Dobbiamo invece svincolarci dalla difesa del pregresso e usare la sanità come motore di un processo di riorganizzazione dello spazio pubblico, che parli a intere aree sociali di quel mondo, dai medici al personale ospedaliero, agli apparati amministrativi regionali. Attraverso la sanità, si può dare forma a un’idea di Stato e di alleanza fra pubblico e cittadini che possa fare arretrare la destra.