A Colombo, nello Sri Lanka, qualche settimana fa una folla pacifica ma determinata, come si è potuto vedere dalle immagini televisive, si è riversata nel palazzo del potere. Il presidente Rajapaksa era fuggito con tutto il suo clan. A vincere la partita, dopo mesi di manifestazioni e di proteste, è stato un movimento di massa privo di leader, secondo quella che – con una certa forzatura, d’accordo – si potrebbe definire una rivoluzione luxemburghiana. La concezione di Rosa Luxemburg era caratterizzata infatti dall’idea di una “spontaneità delle masse” che, a un certo punto, dinanzi a un crollo dell’economia, avrebbe dato vita a un processo rivoluzionario.
Ora – fatte le debite proporzioni, e considerando che quella dello Sri Lanka è semmai una rivoluzione politica, cioè un cambio di regime in senso democratico, e non una rivoluzione sociale come quella immaginata da Rosa – è proprio l’elemento della “spontaneità”, ossia il contrario di qualsiasi direzione esercitata da un’avanguardia organizzata, che balza agli occhi negli avvenimenti dello Sri Lanka. Qualcosa di analogo al rovesciamento di Ben Ali in Tunisia nel 2011. O alla lunga, e alla fine sventurata, vicenda che cominciò in quello stesso anno in Egitto. Con la differenza, per nulla secondaria, che in quei Paesi dell’Africa del Nord erano al comando da decenni delle dittature vere e proprie, mentre nello Sri Lanka il presidente, secondo una qualche forma di democrazia, era stato eletto nel 2019.
L’ipotetico luxemburghismo odierno può giovarsi, rispetto al passato, di due fattori entrambi determinanti, uno positivo e l’altro negativo. Quello positivo consiste nell’affermazione e nella diffusione sempre più massiccia delle nuove tecnologie di comunicazione, dei social media eccetera, che consentono un’autoconvocazione e un’autorganizzazione dei movimenti di massa un tempo impensabile. Quello negativo – nel senso che si esplica in un’assenza e non in una novità – consiste nella perdita, anzi nell’affondamento completo, dell’idea di un partito come decisiva forza rivoluzionaria trainante. A pensarci bene, però, dopo il famoso colpo di mano dell’ottobre sovietico, nessuna rivoluzione del Novecento si è svolta secondo lo schema bolscevico. Neppure quella cinese, con la “lunga marcia” di Mao, aveva le caratteristiche di una presa del Palazzo d’Inverno, come in Russia nel 1917. E dopo il crollo del comunismo su scala mondiale chi, se non qualche nostalgico, potrebbe più puntare a una riedizione del “partito rivoluzionario”?
Ciò apre delle possibilità per una prospettiva socialista di tutt’altro tipo. Pur in un contesto caratterizzato dalla debolezza, anche teorica, di una critica del capitalismo (giustamente Gustavo Petro, il neoeletto presidente colombiano, ha dichiarato: “il capitalismo non è il nostro sistema preferito, e tuttavia…”), già all’interno del sistema è possibile far crescere un’alternativa, di volta in volta nelle forme consentite dalle differenti situazioni. In America latina una nuova sinistra capace di mettere insieme, in un rinnovato “fronte ampio” sociale, le istanze “indigene”, quelle dei difensori della “madre terra”, con le rivendicazioni economiche delle classi popolari urbane e di una parte del ceto medio impoverito, sta ottenendo dei significativi successi elettorali. Il cammino non si fa secondo un percorso prestabilito, ma solamente nell’andare. E in questo andare è compresa un’apertura dell’orizzonte, soprattutto se si pensa alla grande sfida, legata ormai alla stessa sopravvivenza della specie umana sul pianeta, e se si considera il contemporaneo dispiegarsi di una molteplicità di crisi – ecologica, pandemica, economica, da ultimo nuovamente bellica in Europa – che appaiono come l’accumularsi dei presupposti di una catastrofe.
Ora, secondo una logica rivoluzionaria, si tratterebbe di aspettare il momento adatto per l’intervento risolutivo di un movimento di massa nella crisi. Ma non è affatto detto che sia questa l’unica ipotesi disponibile. Anche perché, appunto in virtù della loro “spontaneità”, il momento dell’irrompere dei movimenti non è in alcun modo prevedibile, e soprattutto non si può prevedere la direzione – magari regressiva – che potrebbero assumere, cosicché affidarsi a essi in modo esclusivo può essere rischioso.
L’altra opzione (ed è quella che si intravede in alcune realtà dell’America latina) consiste in una riforma sociale condotta da forze democratiche e socialiste, in maniera graduale ma determinata, che si faccia carico di misure adatte a modificare il sistema, evitando così una precipitazione della crisi dagli sbocchi incertissimi. Non è la stessa cosa che Rosa a suo tempo proponeva, ma è un’opzione che, nonostante tutto, le si avvicina.