La scomparsa di Eugenio Scalfari – che giunge, non senza significato, insieme con quella di Angelo Guglielmi – testimonia dell’esaurirsi di una lunga stagione, iniziata con il dopoguerra, rinvigoritasi negli anni Sessanta-Settanta, e diventata egemone negli ultimi due decenni del secolo scorso, in cui i media facevano l’opinione e non ne erano strumento. Il messaggio di un medium o di una tecnologia – scrive Marshal McLuhan nel suo Gli strumenti del comunicare – “è nel mutamento di proporzioni, di ritmo e di schemi che introduce nei rapporti umani”. Scalfari, come Guglielmi, è stato egli stesso medium o tecnologia, e non puramente interprete del giornalismo.
Il fondatore di “Repubblica” ha sapientemente tradotto in italiano la lezione di Walter Lippmann, per il quale il giornalismo è la fabbrica e non la vetrina dell’opinione pubblica. Dagli anni Cinquanta, lo scalfarismo è diventato la tecnologia per cui una testata – “Il Mondo” o “L’Espresso”, o infine Repubblica – produceva il suo pubblico, creando un’identità culturale ma soprattutto linguistica. I suoi giornali – più che partiti, come gli si rimproverava – erano comunità sociali che dialogavano con il sistema politico, da pari a pari. Esattamente come fu Rai Tre di Angelo Guglielmi, per un periodo più breve. In quel ruolo, Scalfari ebbe sempre l’accortezza di trovarsi un avversario, uno spauracchio, un nemico su cui far crescere la sua militanza civile: la Dc della “capitale corrotta nazione infetta”, del centrismo doroteo, poi l’ombra inquietante della “razza padrona” di Eugenio Cefis, ancora il craxismo arrembante degli anni Ottanta, e infine il berlusconismo contagioso degli ultimi decenni. Non si trattava di una controparte politica, ma di un altro modo di pensare e organizzare la società.
Il giornalismo di Scalfari, proprio contrapponendosi a questi nemici, non poteva essere solo predica o militanza, ma doveva diventare testimonianza professionale: più questi avversari infettavano la cosa pubblica, il sistema finanziario, gli apparati di sicurezza, e più un giornale, come diceva un altro grande direttore come Luigi Pintor, doveva essere un giornale, ossia reagire con il linguaggio del giornalismo: l’inchiesta, la ricerca, la denuncia, l’opinione.
Le pagine costruite da Scalfari avevano sempre combinati questi tre elementi: l’inchiesta, la ricerca, l’opinione. Le lenzuolate dell’“Espresso”, che persino fisicamente suggeriva l’idea di un monitor di un giornale tv. E poi l’invenzione di “Repubblica”, con quel mix di presidio civile e sbarazzina azione politica. Berlinguer e De Mita furono i suoi interlocutori naturali, Craxi e Andreotti i suoi nemici istintivi. Ma è con Berlusconi che il direttore gioca la partita definitiva, anche in termini personali, quando per un gioco finanziario, al quale non fu mai insensibile, si trovò per bizzarria del destino, ma anche avvertimento della storia, condomino nella stessa società, la Mondadori, che gli eredi vendettero, dopo l’alleanza con Caracciolo, proprio al palazzinaro di Arcore.
Alle spalle, Scalfari aveva il fallimento del progetto televisivo, che razionalizzò comprendendo che stava mutando il paradigma comunicativo. Si rinserrò nella sua portaerei di carta, preparando la mossa del cavallo con le prime incursioni nel web. La transizione al digitale lo trovò freddamente attento. Capiva che lì si giocava la nuova partita, ma quel mondo non gli piaceva e soprattutto non sapeva come riprodurre la sua visione regale di un giornale con la corona, che governava anche senza regnare.
Il passaggio finale, che archiviò ogni sua ambizione di consigliere del principe, fu, proprio con la svolta del millennio, la trasformazione della mappa geosociale. Il centro non era più luogo di ceti moderati da conquistare con quel mix di radicalismo dei diritti e realismo nell’economia, ma una fornace di estremizzazione corporativa, che dava spazio a forme di populismo sovranista. La sinistra non era più vettore che portava nello Stato una classe operaia travestita da ceto produttivo, ma una cultura in cerca di un conflitto da rappresentare. In questo scenario, l’ultima “Repubblica” scalfariana fu un Rotary della memoria, in cui si procedeva per vecchie affinità, elencando ogni volta la lista dei candidati a tutto: Veltroni, Ciampi, De Mita, Napolitano, Manzella, ecc.
L’ultimo della covata fu Mario Draghi, in quel governo senza voti che ricorreva spesso nelle impennate emergenziali di un grande vecchio, che sempre più non riconosceva nemmeno i suoi lettori. Scalfari se n’è andato dopo aver perso ogni riferimento nella sua bussola. Persino la mitica America, governata da gente con la pelle di bufalo che assaltava il Campidoglio. Era davvero troppo. Con la lucidità di sempre, non ha mai chiesto al mondo di fermarsi. È sceso in corsa. E le prossime saranno le prime elezioni, dal 1948, senza di lui come suggeritore. Bene o male?