Per capire cosa abbia fatto papa Francesco nominando tre donne nella Congregazione per i vescovi, di cui due nella commissione incaricata della selezione dei candidati, bisogna immaginare un classico esponente della curia romana – un uomo, cioè, che da quando lavora è convinto di esportare nel mondo la sua verità totale – intento a leggere la lettera che il suo superiore supremo, il successore di Pietro, ha scritto per ricordare l’amico Eugenio Scalfari, poche ore dopo la sua scomparsa, apparsa su “Repubblica”. In particolare, bisogna immaginarselo davanti a ciò che richiama di meno la nostra attenzione: “Da oggi ancora di più conserverò nel cuore l’amabile e prezioso ricordo delle conversazioni avute con Eugenio, avvenute nel corso di questi anni di pontificato. Prego per lui e per la consolazione di coloro che lo piangono. E affido la sua anima a Dio, per l’eternità”. L’uomo che, sin dagli esordi, è convinto di avere il compito di informare il mondo della sua assoluta verità avrà apprezzato queste parole riguardanti un uomo che non credeva in Dio? Si sarà rinsaldato nella sua certezza di averla tutta lui, quella universale e immodificabile verità?
Ecco, pensando a questo, si può immaginare meglio la reazione, il giorno in cui è stato pubblicato il decreto di nomina al quale qui ci si riferisce. Tre donne, una religiosa e due laiche, nel sancta sanctorum del maschilismo, in cui gli uomini hanno sempre pensato e fatto da soli la storia della Chiesa-istituzione. Tutto normale?
Questi due universi – Bergoglio e il curiale tipo – cercano forse il modo di coesistere, di comprendersi, non saprei. Ma il modo di essere di Francesco è un altro da quello che il nostro immaginario interlocutore ha conosciuto. Certo, Francesco non è il primo papa che con la curia ha delle difficoltà. Si racconta che, nel processo di gestione dell’enciclica Humanae vitae (1968), nota come l’enciclica contro la pillola, Paolo VI avesse subito pressioni, tanto da chiedere che venisse promulgata chiarendo che doveva essere oggetto di discussione e non era sottoposta al vincolo della non modificabilità. E Giovanni Paolo II? Le voci di “eresia papale” non sono circolate per la prima volta, negli ambienti curiali, in occasione dell’incontro interreligioso di Assisi? Lo testimoniò, sul “Corriere della sera”, una fonte attendibile come Vittorio Messori.
Ma nel caso di papa Francesco non si tratta soltanto di scelte importanti; si tratta di un modo di essere, di vivere, di pensarsi, di sapersi. Perciò è curioso che queste riforme siano viste come dei fatti di forma e non di sostanza, quasi come delle curiosità. Ma il papa con le scarpe nere, le sue scarpe dei tempi di Buenos Aires, non è una curiosità; è un superamento della dimensione “papolatrica”, indispensabile per ritenersi portatori di un’assoluta, immutabile, ovunque valida, verità. Il papa è un semidio: dunque i suoi collaboratori chi sono? Le scarpe di Bergoglio sono state il primo indicatore che il pontefice non è un semidio, è un uomo. La verità, dunque, va costruita unendo tutte le verità che fanno la Chiesa nel mondo. Questa idea di verità possiamo rappresentarcela pensando a una fontana: quella del “normo-curiale” è la fontana che farebbe zampillare l’acqua della verità in tutto il mondo. Questa nuova, di Francesco, è una fontana, invece, i cui zampilli vengono dal mondo e tutti insieme, arrivando a Roma, fanno la Chiesa universale.
In questa verità che si costruisce attraverso volti, storie, realtà diverse, culture e spiritualità differenti, c’è il superamento del clericalismo. Il clero romano doveva uniformare la Chiesa alla verità, alla cultura, alla visione del centro. Ora il clero deve unirsi al gregge, alle greggi, alle loro culture, alle loro tradizioni. E con queste creare il Popolo di Dio, fatto di tanti popoli, di tante spiritualità, di tante sensibilità, di tante persone, consacrati e laici – e laiche.
Se questa Chiesa dei battezzati riserva ancora ai consacrati il ministero sacerdotale, non riserva loro però il comando. La parrocchia, la Conferenza episcopale, la curia romana hanno bisogno di aprirsi alla spiritualità, alle idee, alle sensibilità dei laici e delle laiche. Cioè alle loro voci, alle loro priorità. Nella vita celibataria non c’è alcuna superiorità rispetto a quella coniugale; il maschio non ha alcuna superiorità rispetto alla donna. Officiare i sacramenti è un servizio, come leggere i testi sacri durante la funzione, insegnare il catechismo, distribuire le ostie, amministrare la parrocchia. Allora possiamo immaginarci il volto del curiale tipo ancora meglio. Ecco delle donne che contribuiscono a selezionare i candidati all’episcopato, ne scrutano i curricula, nel valutano le qualità. Davvero? E con quali criteri?
Porsi questa domanda sui criteri, conduce a una preziosa intervista uscita, in questi giorni, proprio sul sito del Vaticano, dove suor Yvonne Reungoat, già superiora generale delle Figlie di Maria Ausiliatrice, appena nominata nella Congregazione per i vescovi, ha risposto così alla domanda sulla qualità che ritiene prioritaria in un vescovo. “Sicuramente che sia un pastore, un sacerdote che manifesta nel suo modo di vivere una capacità di vicinanza al popolo, di ascolto, di accompagnamento e di coinvolgimento di tutte le vocazioni nella propria Chiesa locale. In questo senso, il cammino della sinodalità che la Chiesa sta facendo credo sia particolarmente importante. Un pastore ha il senso della sua responsabilità, ma nello stesso tempo si mette in ascolto anche del mondo fuori della Chiesa. Perché la Chiesa non esiste per se stessa, ma esiste per il mondo, per tutta la gente di buona volontà”.
La determinazione con cui Francesco smantella il clericalismo e costruisce la Chiesa del Popolo di Dio, globale e non centralista, è uno degli spettacoli più affascinanti che una città in disfacimento come Roma offra al mondo.