Da tempo la violenza e l’instabilità politica in Africa la fanno da padrone. Il Sudan, tre anni dopo la deposizione dello storico presidente Omar al-Bashir, non fa certo eccezione. Dopo il fallimento di ogni transizione politica, il generale Abdel Fatah al-Burhan, presidente del Consiglio sovrano – e di fatto capo di Stato dal 25 ottobre scorso, quando era stato destituito il presidente Abdalla Hamdok – è apparso ancora una volta in tv, dopo altri quattro giorni di scontri, che sono costati la vita a nove dimostranti, nel corso di manifestazioni nelle strade e nelle piazze della capitale Khartum e in altre città del Paese.
Nella comunicazione televisiva al-Burhan ha aperto alla possibilità di trattare con i civili dopo la definitiva rottura con Hamdok, reintegrato il 21 novembre 2021 (vedi nostro articolo del 9 dicembre scorso) nella carica di primo ministro, poi dimessosi il 2 gennaio 2022 per l’impossibilità di ridare ai civili il ruolo politico che sarebbe loro spettato. Nel discorso televisivo, il generale ha invitato i “partiti politici e le organizzazioni rivoluzionarie sudanesi a impegnarsi in un dialogo immediato e serio per formare un governo di persone competenti, indipendenti che possano portare a termine i compiti del periodo di transizione”.
Al centro di una eventuale trattativa, ci sarebbe il tentativo di dialogo già avviato dalle Nazioni Unite, dall’Unione Africana e dall’Igad (Autorità intergovernativa per lo sviluppo), un’organizzazione politico-commerciale formata dai Paesi del Corno d’Africa. Contro queste trattative, si sono però sempre battuti gli oppositori al regime, sostenendo che “con i golpisti non si tratta”. Ma proprio su questo punto il generale sudanese ha cercato di introdurre elementi di rassicurazione: “L’esercito non parteciperà più a questi incontri e in futuro si occuperà solamente di difesa e sicurezza nazionale”, ha dichiarato al-Burhan.
Per favorire un avvio tranquillo (per quello che può significare questa parola in Sudan), il presidente de facto del Paese ha ventilato la possibilità di sciogliere il Consiglio sovrano di transizione da lui presieduto, anche se, qualora tornassero al governo i civili, un Consiglio supremo delle forze armate dovrà pur essere formato. L’importante è che non interferisca nella vita politica, come invece hanno fatto finora i militari. Il governo sembrerebbe intenzionato – il condizionale è d’obbligo – ad andare incontro alle forze d’opposizione, che chiedono un ripristino della normalità. Dopo il golpe dello scorso ottobre, le proteste sono state represse nel sangue, con un bilancio di 81 morti. E a nulla sono serviti gli appelli alla comunità internazionale, che pure, dopo gli accordi di Abramo (che prevedono una normalizzazione dei rapporti tra Israele, da un lato, e diversi Paesi arabo-islamici, dall’altro, tra i quali appunto il Sudan, operazione sponsorizzata dall’allora presidente degli Stati Uniti Donald Trump), non dovrebbe essere certo indifferente alle sorti di Khartum.
Questo scontro cruento tra civili e militari nasce da quello che può essere considerato un vero e proprio tradimento, da parte dell’esercito, della insurrezione con la quale le forze civili avevano messo fine, nel 2019, al regime dell’ex presidente Omar al-Bashir, arrivando a un accordo di condivisione del potere tra i gruppi civili e militari. Per Fausta Speranza, giornalista di “Radio vaticana”, e prima donna impegnata nella redazione esteri dell’“Osservatore romano”, “dopo la deposizione di Omar al-Bashir, si doveva avviare una transizione verso le elezioni guidata da un bilanciamento di poteri tra il primo ministro incaricato, Abdalla Hamdok, e i militari, iniziata con l’accordo siglato il 17 agosto 2019 dall’esercito e dalle Forces for Freedom and Change, il fronte rappresentativo delle forze sociali protagoniste della sollevazione popolare”. Ma – aggiunge Speranza – “i militari avevano dato presto l’impressione di voler assumere pieni poteri, interrompendo la transizione”.
Non è la prima volta che al-Burhan cerca di riaprire un dialogo con i civili e con l’opposizione. È già avvenuto poco più di un mese fa, quando il leader sudanese, sempre attraverso la televisione di Stato, ha annunciato la volontà di arrivare a una trattativa con i civili. Parole al vento, secondo la maggioranza dei partiti. A quel tavolo, infatti, si sono sedute solo le realtà più vicine al regime. “L’opposizione della società civile – informa il mensile dei Padri comboniani “Nigrizia” –, ovvero la coalizione delle Forze per la libertà e il cambiamento, il Partito comunista, i Comitati di resistenza, il partito Umma e il suo storico rivale, il Partito democratico unionista, e i due principali gruppi armati, attivi nel Darfur e nel Kordofan, hanno rifiutato un dialogo con i militari, i cui unici interlocutori sono gli islamisti e l’ex partito dell’ex presidente Omar al-Bashir”. Un appello rimasto lettera morta, del resto, anche per il perdurare della repressione, che ha suscitato le proteste degli Stati Uniti, dell’Unione europea, della Gran Bretagna e del Giappone.
Altro nodo – la cui mancata risoluzione potrebbe far naufragare la trattativa prima ancora di cominciare – è il rapporto tra i militari e l’economia del Paese, da essi completamente controllata. A denunciare questo stato di cose, è l’organizzazione statunitense Breaking the Bank, il cui rapporto è stato pubblicato dal Centro per gli studi avanzati di difesa (Center for Advanced Defense Studies). Secondo questo documento, il vecchio regime di Omar al-Bashir aveva creato una sorta di Stato parallelo, in grado di controllare le risorse del Paese. Una volta decaduto, i militari hanno dato seguito a questa politica. Per Bruna Sironi, giornalista di “Nigrizia”, colonna portante della Ong Mani Tese, impegnata nella cooperazione internazionale, “dopo la caduta del regime, esercito e apparati di sicurezza, parte delle istituzioni di transizione, non hanno fatto altro che sviluppare e raffinare questo controllo. E il colpo di Stato militare del 25 ottobre dell’anno scorso – aggiunge l’attivista – è stato determinato dalla ‘necessità’ di impedire alle forze civili di smantellare la rete dello Stato parallelo, considerato il vero nemico da battere per avviare il Paese alla democrazia”.
Questo quadro è incompatibile con il mantenimento di buone relazioni con gli Stati Uniti e l’Unione europea. Washington, in particolare, aveva congelato settecento milioni di dollari stanziati proprio per fare fronte all’emergenza Sudan, e anche Bruxelles si è comportata di conseguenza. Ma queste sanzioni potrebbero non condizionare affatto la politica del regime. Se Khartum ha avviato da tempo ottime relazioni con la Russia, soprattutto sul fronte dell’assistenza militare, nell’ambito dei rapporti economici non mancano sia i rapporti con i Paesi del Golfo sia con la Cina. Pechino, lo scorso giugno, forte di una penetrazione sempre più massiccia nel “continente nero”, ha invitato il Sudan a una conferenza sul Corno d’Africa.
Ma la vera alternativa ai mancati aiuti occidentali arriva da Abu Dhabi. Gli Emirati arabi uniti hanno rimpinguato le banche sudanesi a sostegno dell’economia locale. E anche Israele non sembra avere alcuna intenzione di mettere in discussione gli accordi di Abramo. Secondo quanto riferito dall’emittente pubblica israeliana “Kan”, più volte delegazioni israeliane avrebbero visitato il Paese africano. Al-Burhan ha affermato che la normalizzazione delle relazioni con Israele è “necessaria per il reintegro del Sudan nella comunità internazionale”. Insomma, i golpisti di Khartum – che intanto stanno liberando i seguaci di al-Bashir, mettendo in atto una sorta di restaurazione – hanno molti alleati, e, anche se questo nuovo tentativo di dialogo non dovesse andare in porto, per il regime i danni saranno pochi. Con buona pace di Washington e di Bruxelles – sempre più all’angolo nella gestione delle crisi internazionali.