Non poteva che finire così. Non senza sarcasmo possiamo dire che, tanto lunga è stata l’attesa, da poter supporre che si volesse che andasse così: cioè che lo Stato scegliesse di non inchiodare se stesso, attraverso tre poliziotti, alle responsabilità del grande depistaggio dell’inchiesta su via D’Amelio. La sentenza è arrivata ieri, a una settimana dal trentesimo anniversario della strage nella quale furono trucidati Paolo Borsellino e gli agenti della sua scorta. Undici ore di camera di consiglio e il tribunale di Caltanissetta ha detto, in primo grado, che il depistaggio delle indagini sull’attentato ci fu, a commetterlo furono due poliziotti: Mario Bo e Fabrizio Mattei, ma il loro reato è prescritto per il venir meno dell’aggravante di mafia. Mentre esce assolto – per non aver commesso il fatto – Michele Ribaudo, terzo imputato, collega di Bo e Mattei ai tempi dell’inchiesta sugli attentati del 1992. Come sia caduta l’aggravante, lo spiegheranno le motivazioni che saranno – si può immaginare – un esercizio importante di retorica, dovendo spiegare che i due hanno ingarbugliato le indagini, hanno costretto, anche torturandolo, un delinquente comune a passarsi come uno stragista, non sapendo, tuttavia, che così stavano favorendo Cosa nostra. Una beffa, diremmo. Dunque, possiamo continuare a parlare di depistaggio nei nostri incontri pubblici, ma nessuno pagherà.
Secondo la procura – rappresentata dai pm Stefano Luciani e Maurizio Bonaccorso – gli imputati, che appartenevano al pool incaricato di indagare sulle stragi di Capaci e Via D’Amelio, con la regia del loro capo, Arnaldo La Barbera, morto nel dicembre del 2002 portandosi via parecchi grandi segreti, avrebbero creato a tavolino i falsi pentiti Vincenzo Scarantino, Salvatore Candura e Francesco Andriotta, imbeccandoli e costringendoli a mentire, e ad accusare della strage persone poi scoperte innocenti: da qui la contestazione di calunnia. Il castello di menzogne da loro montato, con la regia di La Barbera, ha di fatto aiutato i veri colpevoli, coprendo per anni le responsabilità dei clan mafiosi di Brancaccio e dei suoi capi, i fratelli Graviano. Per questo, ai tre poliziotti, la procura aveva contestato l’aggravante di avere favorito Cosa nostra, oggi caduta.
“I plurimi, gravi elementi depongono tutti nel senso che il depistaggio ha voluto coprire delle alleanze strategiche di Cosa nostra, che in quel momento riteneva di vitale importanza”, aveva detto la procura durante la requisitoria. Dal 2008, anno delle dichiarazioni del pentito Gaspare Spatuzza – che ha ridisegnato le responsabilità nell’attentato, scagionando Scarantino e gli altri balordi –, sappiamo che è stato messo in piedi un depistaggio, definito dai giudici dell’ultimo processo sulla morte di Borsellino come il più grave della storia della Repubblica – ma crediamo che quello della strage di Bologna non sia stato affatto da meno, salvando allora i vertici piduisti e i loro alleati istituzionali.
Perché tanto tempo per mettere in piedi il processo concluso ieri? Un’architettura perfetta per arrivare al risultato odierno: nessun colpevole, grazie alla tagliola della prescrizione. Un meccanismo giudiziario infernale. E non è tutto. Perché restano enormi buchi investigativi sulla strage: a cominciare dalla comprensione del perché sia stata decisa, a due mesi dall’assalto all’autostrada di Capaci, dove venne fatta saltare in aria l’auto in cui viaggiava Giovanni Falcone. Una scelta apparentemente suicida per Cosa nostra, visto che di lì fu impossibile trovare spazi di alleggerimento del regime penale come pure i boss chiedevano. E poi quello sconosciuto nel garage in cui fu allestita l’autobomba, visto da Spatuzza, che però non ha saputo riconoscerlo, e non era uno del giro mafioso. E ancora la scomparsa dell’agenda rossa di Paolo Borsellino, rubata sulla scena del crimine e mai ritrovata, un oggetto scarsamente interessante per la mafia. E poi il circuito di protezione dei veri responsabili, costituito dall’allora procuratore di Caltanissetta Tinebra, che chiamò illegittimamente nelle indagini il pool del Sisde guidato da Bruno Contrada, la protezione di questi assicurata dal capo della polizia, Vincenzo Parisi: tutte persone morte, come anche Stefano Delle Chiaie, il leader avanguardista che si era fatto le ossa con le squadre di picchiatori, spellandosi le mani al convegno del 1965 sulla strategia della tensione dell’Istituto Pollio, aitante collaboratore del golpista Junio Valerio Borghese: era a Capaci prima dell’attentato, le ultime risultanze investigative, anch’esse lasciate nei cassetti per anni, lo portano prepotentemente sulla scena della stragi mafiose. Forse Borsellino aveva compreso tutto, aveva molte conoscenze nei giri fascisti. Sarà per questo che si sbrigarono a farlo fuori.