Il copione è quello ormai consueto: fuoriuscita di documenti da un data base, rivelazioni di nomi e relazioni compromettenti, autocritica dei responsabili, bonifica dei vertici decisionali. È lo schema Wikileaks, quello per cui oggi Julian Assange rischia il carcere a vita negli Stati Uniti, e che ha permesso di rendere pubbliche una massa infinita di abusi e violazioni del diritto da parte di grandi Stati, come appunto proprio gli Stati Uniti, e innumerevoli imprese e gruppi finanziari. Oggi tocca a Uber. L’11 luglio, il “Guardian” spara in prima pagina la notizia delle malefatte compiute da Uber fra il 2014 e il 2017. L’inchiesta, anche in questo caso secondo una consuetudine ormai consolidata, è il frutto di un lavoro collettivo di un’intera comunità di giornalisti: circa 180 cronisti, di 44 testate diverse, associati nel gruppo Consorzio internazionale di giornalisti investigativi, hanno diffuso qualcosa come 124mila documenti riservati. Al centro della ricerca, le relazioni informali fra l’allora fondatore e amministratore delegato di Uber, Travis Kalanick, sostituito poi anche per il suo comportamento disinvolto dall’attuale ceo Dara Khosrowshahi, e una serie di leader di governi europei, come il presidente francese Macron, ex ministro dell’Economia, l’allora sindaco di Amburgo – e attuale cancelliere tedesco – Scholz, e, per quanto riguarda Italia, il premier in carica nel 2014, Matteo Renzi.
Com’è noto, Uber è un modello di trasporto metropolitano che combina la disponibilità di tempo di singoli autisti con la domanda di spostamento in città. In base a un sistema algoritmico, un passante cerca un passaggio e sul suo telefonino gli arriva la disponibilità di un automobilista che, per una cifra determinata dalla domanda e l’offerta, gli propone di accompagnarlo. Successivamente, il servizio si è strutturato affiancando agli occasionali trasportatori un numero di autisti che stringono un accordo di collaborazione con Uber, e si impegnano per certe ore, in determinate aree, ad assicurare un’offerta di trasporto.
È una logica tipicamente americana, basata sulle città infinite e sul liberismo gestionale. Dopo il successo negli Stati Uniti, il gruppo apre la campagna d’Europa, dove norme e vincoli sono decisamente più stringenti. In quella fase Uber si fa largo a spallate, imponendo il modello americano. Una strategia aggressiva che mirava a scardinare ogni regola, e anche ogni vecchio privilegio, del regime delle concessioni dei taxi pubblici nelle nostre principali città. Una politica che, inizialmente, godeva anche della simpatia dell’opinione pubblica, che vedeva finalmente un’alternativa alla corporazione dei tassisti che, in molte città, conducevano una vera e propria azione di controllo privato su un pubblico servizio, con la creazione di potentati anche elettorali, spesso a supporto degli esponenti della destra più estrema.
Il punto dolente, che mise Uber nel mirino della magistratura e anche di molta stampa, fu il comportamento sprezzante e arrogante che il gruppo aveva nei confronti dei propri collaboratori. Siamo nei primi anni della cosiddetta gig economy. Orari, assistenza e minimo garantito diventavano tutte occasioni di violazioni delle leggi. Su cui si scatenò poi la lobby gialla dei tassisti, che naturalmente usava le trasgressioni di Uber per garantire la propria rendita di posizione.
I vertici del gruppo americano cercarono scorciatoie, e, grazie a mezzi smisurati, arrivarono alle anticamere del potere massimo: l’Eliseo, la cancelleria tedesca, Palazzo Chigi. Macron apre un varco consistente, da ministro dell’Economia, che poi dovrà richiudere. Renzi ritarda le leggi che regolavano il trasporto urbano. Uber avanza nelle città – ma poi dovrà ripiegare.
Il buco nero su cui bisogna discutere riguarda, come sempre nel digitale, la relazione fra il potenziale di liberazione e il dominio che i proprietari dei sistemi di calcolo inevitabilmente si trovano a esercitare. Immaginare forme di scambio fra tempo e servizio, come inizialmente Uber aveva sperimentato, è un argomento su cui costruire processi di cittadinanza attiva, seguendo modelli cooperativistici basati sulla sussidiarietà sociale. Ovviamente questo non può concludersi con il monopolio di un centro finanziario, che accumula dati talmente sensibili da diventare una forma di potere separato rispetto al servizio. Uber, infatti, si trova con le sue attività – oggi, per esempio, controlla decine di migliaia di monopattini nelle grandi metropoli italiane – a disporre di un inesauribile data base sulle modalità di spostamento nelle città, che non vengono usati dalle pubbliche amministrazioni. In tempo di contagio e di riprogrammazione della vita urbana, avere accesso a questa fonte di informazione sarebbe prezioso per costruire una strategia pubblica dei dati. Ma nessuno chiede questa opportunità. Nessun sindaco, nessun sindacato, nessun partito. Da qui invece bisogna ripartire, riattualizzando la lezione delle forme di pressione che furono attivate sulle istituzioni: non basta essere autonomi, bisogna anche avere l’ambizione di riclassificare le forme tecnologiche a vantaggio della società, e non della proprietà.