Una trentina di detenuti di Rebibbia, condannati in via definitiva con pene medio-lunghe, stanno lavorando dal 2017 alla digitalizzazione degli atti dei vari processi Moro: un progetto nato dalla collaborazione dei ministeri della Cultura e della Giustizia con l’Archivio Flamigni – diretto da Ilaria Moroni –, la Cassa delle ammende, l’istituto che si occupa di retribuire il lavoro carcerario – guidato oggi dalla attivissima Sonia Specchia –, e fortemente sostenuto dalla direttrice del penitenziario Rosella Santoro. È solo l’inizio di un lungo percorso che vedrà passare sotto gli scanner milioni di carte, per ora quelle dei processi su Ustica – due milioni e mezzo di fogli – e contro Licio Gelli; poi ne verranno molti altri. Per i detenuti coinvolti, non si tratta affatto di un’azione “fordista”, alienante e ripetitiva: dietro c’è molto lavoro degli archivisti e molta consapevolezza, da parte dei detenuti stessi, che toccano i documenti sapendo che stanno toccando la storia d’Italia.
L’esperienza è raccontata in Contributi di civiltà. Tratti da una storia vera, documentario di Ennio Coccia, regista romano di lungo corso, presentato ieri, 7 luglio, nel Teatro Libero del carcere romano, alla presenza di diversi detenuti coinvolti e non coinvolti nel progetto, tra i quali spiccavano alcuni volti giovanissimi e quello noto del capitano Francesco Schettino, condannato per il naufragio della Costa Concordia. Il documentario è molto bello, si sente la mano delicata del regista che non vuole indugiare sulle vite dei detenuti intervistati, preoccupandosi di presentarli, nelle didascalie, con il generico appellativo di “addetto allo scanner”; e si nota il suo gusto nella scelta delle immagini dell’Istituto Luce, lo sforzo sintetico per rappresentare e tenere insieme una tragica storia e un’esperienza di civiltà.
Lo sguardo su questa vicenda può essere di due tipi. C’è il peso degli anni passati: siamo ancora lì, a digitare gli atti giudiziari, perché le carenze delle infrastrutture culturali sono tali che non ci sono stati in precedenza né mezzi né risorse umane. C’è il peso delle vite disgraziate, che sono lì anche loro e si mettono in gioco, misurandosi con quelle carte complicate, e provando anche ad acquistare un’esperienza tecnologica che potrà essere utile un giorno fuori dal carcere, quando arriverà quel fatidico momento, che arriverà. E inoltre c’è il peso delle verità mancate, mutilate, ancora nascoste: “Ma allora ci dice la verità del caso Moro dopo aver letto tutte queste carte, dottor?” – chiede uno degli spettatori a Michele Di Sivo, vera eccellenza del nostro patrimonio archivistico nazionale, coordinatore del progetto al quale lavora insieme a molti professionisti degli archivi, tra i quali lo storico cancelliere del tribunale di Roma, Paolo Musio, ora in pensione ma per niente a riposo, punto di riferimento per anni di studiosi e giornalisti.
Di Sivo gli spiega che la verità, di sicuro, è nelle carte e la loro tutela – quella per la quale sono formati e coinvolti i detenuti – consentirà la Memoria, cioè la ricostruzione del nostro passato, perché questo passaggio attraverso la digitalizzazione è un caposaldo di come verrà raccontata la storia d’Italia. Spiega cioè l’altro sguardo, quello di un “recupero di civiltà”: innanzitutto la civiltà di una pena che rieduca e riconquista alla comunità chi si perde nei meandri del buio; poi la civiltà della verità, quella che consente di mettere uno dietro l’altro i fatti e i loro protagonisti, di mettere sul tavolo le ragioni effettive e le responsabilità, l’unico modo per dare una cornice solida al passato e costruire una Memoria che non nasce mai dalle condivisioni, inutili e opportunistiche scelte di mediazione politica e uso politico della storia, ma dal percorso scientifico della stessa ricostruzione storica. Per l’Italia, a causa di tante ragioni diverse, quella Memoria passa attraverso la digitalizzazione degli atti giudiziari di carte ormai storiche, che consentirà di incrociare dati e nomi, di scoprire nuove cose, com’è accaduto nel processo ai mandanti della strage di Bologna.
Infine, il documentario davvero bello di Ennio Coccia dovrebbe passere di diritto sulle reti televisive: chissà se i distratti dirigenti Rai se ne accorgeranno.