Svolta autoritaria in Tunisia? Non una sorpresa: l’idea doveva essere già ben presente nella testa del presidente Kaïs Saïed, capo dello Stato dal 23 ottobre 2019, e autore il 25 luglio 2021 di un colpo di Stato (si vedano i nostri precedenti articoli qui e qui), con la cacciata del primo ministro Hichem Mechichi, il licenziamento dei ministri della Difesa e della Giustizia, e con la sospensione dei lavori del parlamento, messa in atto invocando l’articolo 80 della Costituzione tunisina.
Questo stato di cose – che in un primo momento non era dispiaciuto alla popolazione, stufa della corruzione di governo, in particolare di quella del partito islamico moderato Ennahda – doveva durare solo un mese, ma la promessa non è stata mantenuta. Il 30 giugno scorso, è stata pubblicata nella Gazzetta ufficiale la bozza di una nuova Costituzione, con l’impegno di sottoporla a referendum il prossimo 25 luglio, insieme con il quesito sulla legge elettorale, prima cioè delle elezioni previste il 17 dicembre. Il testo, già proposto in una consultazione pubblica nazionale online, si compone di 142 articoli divisi in dieci capitoli, e, come ha confermato il decano degli avvocati tunisini Ibrahim Bouderbala, va nella direzione di una repubblica presidenziale. Si sta dunque delineando uno scenario ben diverso da quello del 2014 quando, a tre anni dalla estromissione del dittatore Ben Ali, l’Assemblea costituente uscita dalla “rivoluzione dei gelsomini” aveva posto a fondamento della nuova Carta costituzionale l’equilibrio tra il presidente e il parlamento, in un bilanciamento dei poteri assolutamente necessario visto l’autoritarismo che ha caratterizzato la storia del Paese.
L’identità religiosa della futura Tunisia di Saïed appare controversa. Da un lato, nel progetto di Costituzione è stato tolto il riferimento all’islam come religione di Stato, con un’apparente concessione ai settori più laici del Paese. Dall’altro, il presidente ha però iscritto il Paese nell’umma, un riferimento culturale e religioso alla comunità internazionale dei fedeli musulmani, che affonda le radici nel 622 quando fu istituita per opera di Maometto. Se nella precedente Carta costituzionale era scritto che “la Tunisia è uno Stato libero, indipendente e sovrano; la sua religione è l’islam”, la nuova recita che “la Tunisia fa parte della nazione islamica e lo Stato da solo deve lavorare per raggiungere gli obiettivi dell’islam nel preservare la vita, l’onore, il denaro, la religione e la libertà”. Se la cancellazione dell’islam come religione di Stato potrebbe sembrare un passo avanti nella direzione della laicità, le cose appaiono rovesciate dall’ultimo punto. L’ingresso nella umma si coniuga, infatti, con “il raggiungimento degli obiettivi dell’islam e della sharia” – ha detto Saïed in una recente conferenza stampa.
Insomma, in questa complessa battaglia ideologica e religiosa – che ha come riferimenti, appunto, l’umma e la sharia – il presidente si sarebbe avvicinato alla variegata ideologia della repubblica islamica, che va dai moderati di Ennahda fino agli estremisti di Hiwb Ettahrir o dei salafisti di Ansar Chariâa, suscitando proteste da parte del mondo laico tunisino, che fu tra i protagonisti della rivoluzione del 2011.
C’è poi il punto che riguarda i diritti di sciopero, di organizzazione politica e di parità di genere. A questo proposito, è importante ricordare che, nell’ottobre scorso, per la prima volta nella storia dei Paesi arabi, sono state nominate una donna premier – Najla Bouden Ramadan, docente di scienze geologiche all’università di Tunisi e responsabile dell’attuazione del programma della Banca mondiale presso il ministero dell’Istruzione – e otto ministre su un totale di ventiquattro dicasteri. Un femminismo di facciata, un’operazione di “maquillage politico” – accusano in molti, non senza ragione. Anche perché l’avvicinamento alla sharia non darebbe esattamente garanzie di parità di diritti tra uomini e donne: per esempio, sul tema del diritto di successione, che vede le donne fortemente penalizzate rispetto agli uomini, potendo esse aspirare eventualmente solo alla metà di un patrimonio da ereditare.
Altro punto delicato è il diritto di sciopero, disciplinato dall’articolo 41 che così recita: “Il diritto sindacale, compreso il diritto di sciopero, è garantito. Questo diritto non si applica all’esercito nazionale, e non comprende i giudici, le forze di sicurezza interna e il tribunale”. Questo mentre è in corso uno sciopero nazionale dei magistrati, già da tempo nel mirino del capo dello Stato, il quale, il 6 febbraio scorso, ha sciolto il Consiglio superiore della magistratura istituito nel 2016, accusando i giudici di corruzione e considerando l’organismo un’eredità del passato, con l’intenzione di crearne uno a sua immagine e somiglianza con nomina diretta dei giudici da parte del potere esecutivo.
Sul fronte dell’agibilità politica, bisognerà vedere all’atto pratico se il governo del presidente rispetterà quanto scritto nella Carta. Per esempio, quando afferma che “riunioni e manifestazioni pacifiche sono garantite”, il confine diventa labile. È facile trasformare un corteo pacifico in “violento”, a seconda delle convenienze del momento. E le premesse non sono certo incoraggianti. “Il 14 gennaio – denuncia Lorenzo Fruganti, ricercatore presso l’Ispi (Istituto studi politiche internazionali) ed esperto di Medio Oriente e Nord Africa – in occasione dell’undicesimo anniversario della deposizione dell’ex presidente Ben Ali, la polizia ha risposto con violenza e arresti alle manifestazioni di protesta cui hanno preso parte, a Tunisi, diverse forze di opposizione contro il colpo di mano di Saïed”. Ennahda ha altresì accusato il governo di strumentalizzare la pandemia al fine di limitare l’agibilità politica.
La riforma costituzionale non è comunque in cima ai pensieri della stragrande maggioranza dei tunisini e delle tunisine, che chiedono a Saïed, che continua a godere di una certa popolarità, una soluzione alla grave crisi economica e sociale aggravata dalla pandemia e dalla guerra. In un Paese primo al mondo per consumo di pane – in cui il 47% dei cereali arriva dall’Ucraina, con un’inflazione al 7,5% e un aumento del costo mensile della benzina del 3% – l’acuirsi delle tensioni sociali è dietro l’angolo. Ciò a fronte di una produzione interna assolutamente insufficiente al fabbisogno nazionale. “Produciamo appena la metà del nostro fabbisogno di grano. E dal 45 al 50% delle nostre importazioni proviene dall’Ucraina” – spiega Karim, presidente dell’associazione degli agricoltori Synagri. Con il blocco dell’export dai porti del Mar Nero, dunque, l’effetto domino è inevitabile: più il conflitto si protrarrà, più le sue conseguenze rischiano di diventare insostenibili per le economie fragili, anche a migliaia di chilometri di distanza.
Ad aggravare ulteriormente la situazione, ci sono sia le trattative con il Fondo monetario internazionale, poco disposto ad avviare un percorso vista la deriva autoritaria del Paese, sia le relazioni politiche ed economiche con la Russia, che mal si coniugano con i necessari aiuti occidentali. La Tunisia era l’unico Paese uscito dalle “primavere arabe” con la nascita di una democrazia; ma questo privilegio, ancorché minato dalla grave instabilità economica, rischia ora di scomparire una volta per tutte sotto il peso della deriva autoritaria interna e della grave crisi alimentare a carattere internazionale. Un contesto infernale, dal quale a breve non si vede via di uscita: con conseguenze catastrofiche soprattutto per quei Paesi – come Tunisia, Libano, Giordania, Sudan e Marocco – in cui si consumano 128 chilogrammi di grano pro capite l’anno, contro circa la metà negli altri Paesi del globo.