C’è un eterno protagonista della nostra storia. La paura. Ma la paura di un tempo, quella precedente al capitalismo, era una paura personale. E molti la affrontavano con Dio e con la religione. Da un certo momento in poi, la paura è diventata un fattore sociale. L’illuminismo – la grande novità introdotta dalla borghesia, che a sua volta ha introdotto il capitalismo – ci ha convinto che, come la natura, anche l’uomo segue leggi universali. Dunque ci sarebbe un metro globale per vivere bene, per essere felici. Lo strumento per misurare il benessere e la felicità è dato dal capitalismo. Poiché nessun sistema economico ha potuto rivaleggiare con il nuovo, questo nuovo sistema è divenuto unico, universale. Ci avrebbe consentito una crescita continua, avrebbe eliminato la povertà. In un certo senso, se consideriamo che il capitalismo ha dato avvio alla globalizzazione già due secoli fa, è stato sempre così e sempre di più così. Ma negli anni Settanta il meccanismo si è inceppato. Sono intervenute le crisi, a cominciare da quella del 1974. Non è stata un’assoluta novità, ma in un mondo politicamente e culturalmente imborghesito, che aveva assunto un orizzonte consumista, questo fu un trauma. La paura è diventata ancor più un fenomeno sociale, un fattore sociale. Vissuta in modi diversi in diverse aree del mondo.
Chi diede una risposta globale a questa nuova paura, emersa in quegli anni, fu Giovanni Paolo II, con il celebre motto d’avvio del suo pontificato: “Non abbiate paura”. Non parlava della paura della morte, o della peste, o delle invasioni dei barbari. La paura di cui parlava era la nuova paura, quella sociale. E recandosi a Lampedusa l’8 luglio del 2013 papa Francesco ha capito quale fosse la nuova paura, prima ancora che si manifestasse chiaramente tra noi. Ha capito i tempi che arrivavano ed è andato nel luogo in cui la nuova paura aveva il suo epicentro, anche in senso simbolico. Questo luogo era ed è Lampedusa, dove lui si è recato poche settimane dopo la sua elezione a vescovo di Roma.
La crisi economica del 2008 scosse le speranze di molti che la paura sociale fosse stata sconfitta: essa ritornava, di nuovo sociale, ora stringente, angosciante. Questa paura si è articolata nel mondo seguendo l’ideologia dell’apparente “scontro di civiltà”, ma basandosi sullo scontro reale, quello delle emozioni. Identificato con grande visione da Dominique Moïsi, questo scontro tra emozioni in contrasto lui lo indicava così: l’Asia, la terra della speranza, aveva ancora la sua certezza che il futuro per loro sarebbe stato migliore di ieri e di oggi; i Paesi islamici, terra di umiliazione, volevano liberarsene; l’Occidente, terra di benessere, temeva che i suoi privilegi, o le sue conquiste, stessero svanendo.
Il 2011 arabo è arrivato come la straripante piena della speranza araba: la speranza di potersi scrollare di dosso il peso opprimente di regimi dispotici, saccheggiatori, e unirsi al resto del mondo. La ferocia della repressione ha prodotto il cortocircuito del 2015: e in un Occidente in cui il calo demografico creava lo spettro di una carenza di manodopera, l’afflusso di milioni di profughi, in fuga da morte e tortura, ha fatto percepire questo flusso come un’emergenza, togliendo la consapevolezza dell’emergenza reale: quella percepita era invasione, furto di lavoro.
In questo senso il viaggio di Francesco è apparso come un’autentica profezia del suicidio che avremmo commesso di lì a breve e una risposta fragorosa al nostro silenzio sull’epicentro di questo sisma arabo, la guerra siriana. Sulla rotta balcanica, arrivarono in tanti, ma il grosso di quel fiume inarrestabile di disperazione, per via della persecuzione disumana, era siriano. L’8 luglio del 2013 Francesco aveva compreso tutto. E ci avvisò, con due anni di anticipo, rispetto all’uragano del 2015.
Scartata la solidarietà nei confronti di Abele, la paura non ci ha fatto vedere l’investimento politico-sociale da realizzare, aiutando la costruzione in Stati con noi confinanti in una comune cittadinanza, la sola che avrebbe consentito un vero partenariato euro-mediterraneo. Ma ci ha fatto anche ignorare che quei migranti, opportunamente inseriti, erano una sorta di manna per un continente invecchiato, senza lavoratori e lavoratrici in attività capaci di tenere in piedi il welfare, e un esercito di pensionati in crescita esponenziale. Perso il primo orizzonte, gran parte degli Stati mediterranei a noi vicini sono diventati o stanno diventando degli Stati falliti, senza che noi si sappia capire quanto ciò danneggi noi, oltre che loro.
La paura ci ha fatto piombare in una ricerca di identità che distrugge l’identità. Gli Stati nazionali, infatti, sono tutti fittizi, divengono Stati falliti se nessuno, tranne le élite, vede un vantaggio nell’appartenere a quello Stato che nega anche la pari cittadinanza ai suoi “abitanti”. Le nuove emergenze rendono la cecità di ieri un gravissimo problema per il domani. Ma siccome la capacità di trasformare le emergenze reali in quelle percepite non tramonta mai, si insiste a dire che il problema è preservare la nostra identità. E così ci immergiamo in guerre culturali per definire un’identità. L’identità ci chiederebbe di essere contro l’accoglienza, contro i matrimoni omosessuali, e così via. L’identità diviene così una clava contro l’identità stessa di popoli che la perdono, spaccandosi a metà.
Dunque, a Lampedusa, Francesco pronunciò il suo “non abbiate paura”. Lo disse ricordandoci che Dio chiese a Caino: “Dov’è tuo fratello?”. Se è vero che ciò di cui bisogna avere paura è la paura, possiamo dire che questa, che ci ha fatto rimuovere l’emergenza reale in favore di quella percepita, ha spinto la politica a un sempre maggiore appagamento del nostro fabbisogno energetico con la Russia, invece che con i Paesi mediterranei. Perché se nessuno è fratello, se non c’è buon vicinato, se non si crede nella possibilità di costruire con le nostre civiltà il Mediterraneo delle cittadinanze, allora restano solo altri interessi, più o meno lungimiranti, le economie dei nostri vicini collassano e un evento disastroso, come la crisi del grano, può davvero creare una gigantesca emergenza migratoria. Solo il buon vicinato e il sostegno alla richiesta di cittadinanza in tutti i Paesi del bacino Mediterraneo avrebbe potuto costruire un futuro migliore per tutti, anche per noi.
Quel viaggio rimane dunque il paradigma di come vada inteso il concetto di “interesse nazionale”. Certo che questa deve essere la bussola di ogni politica estera. Ma se non si capisce che il nostro interesse nazionale non può andare contro quello dei nostri vicini, che il Mediterraneo è come un condominio nel quale viviamo con gli altri, e che il loro benessere accrescerà anche il nostro, non il contrario, ci condanneremmo a un invecchiamento fatto di povertà e solitudine.