All’inizio delle proteste il ministro della Difesa, Luis Lara, aveva detto che le forze armate non avrebbero permesso “un altro ottobre 2019”, riferendosi alle proteste indette dalla Confederazione delle nazionalità indigene dell’Ecuador (Conaie), che paralizzarono il Paese per dieci giorni. E invece il Paese è rimasto fermo per quasi tre settimane: il 13 giugno la Conaie aveva indetto un paro nacional indefinido contro il carovita, chiedendo, tra l’altro, una riduzione dei prezzi del carburante, un’attenzione nei confronti del problema della disoccupazione, la regolamentazione dei prezzi dei prodotti agricoli, una maggiore sicurezza e la lotta alla criminalità. Da quel giorno, le proteste e gli scioperi sono andati avanti ininterrottamente, paralizzando le città principali del Paese.
Subito è stato chiaro che non si trattava di un’agitazione qualsiasi. Dopo l’arresto – a cui però è seguita la liberazione – del leader della Conaie, Leonidas Iza, ci sono stati degli scontri tra i manifestanti e la polizia nella capitale Quito. Il governo di Guillermo Lasso ha allora tentato di sedare le proteste aprendo un canale di dialogo con le associazioni disponibili. Una prima rottura della possibilità di mediazione c’è stata il 17 giugno, quando Lasso, in un messaggio al Paese, ha annunciato la decisione di dichiarare lo stato di eccezione “a causa di gravi disordini interni” nelle province di Cotopaxi, Pichincha e Imbabura, dopo una serie di scontri e blocchi di alcune autostrade. Lo stato d’eccezione è stato poi allargato alle province di Chimborazo, Pastaza e Tungurahua.
Alcune organizzazioni della società civile, insieme con le delegazioni dell’Unione europea e dell’Onu, hanno spinto per la realizzazione di un tavolo tra il governo e la Conaie. Il governo si è detto disponibile a partecipare, mentre la Conaie no. Per il presidente della Confederazione delle nazionalità indigene, Lasso avrebbe dovuto prima sospendere lo stato d’eccezione e demilitarizzare le zone del Parque del arbolito e della Casa de la cultura, dove il movimento indigeno ha creato una base per le giornate di mobilitazione e dove fornisce assistenza ai feriti. Nella dichiarazione della notte tra il 22 e il 23 giugno, Iza ha chiesto a Lasso di restituire i diritti sociali al popolo, di abbandonare l’austerità imposta dalle politiche neoliberali imposte dal Fondo monetario internazionale, e di riconoscere i popoli indigeni come attori politici. Ciò ha segnato un passo indietro nel tentativo di dialogo tra le due parti – finché non c’è stato un rovesciamento delle posizioni.
Il presidente Lasso, nel mezzo delle proteste, ha annunciato una riduzione del prezzo della benzina di dieci centesimi di dollaro; la Conaie ha rifiutato questa proposta, ritenuta insufficiente, vista la situazione di povertà in cui versano milioni di famiglie, e ha annunciato una serie di riunioni alla base per coordinare i prossimi passi. Il presidente, da parte sua, ha sospeso lo stato d’eccezione, aprendo a un dialogo con il movimento di protesta.
Martedì 28 giugno, però, nel momento in cui Iza si è dichiarato disposto a incontrare il governo, Lasso ha disertato il tavolo di negoziazione. Il presidente ha deciso di abbandonare il dialogo con le organizzazioni indigene e di reintrodurre lo stato di emergenza in quattro province: Azuay, Imbabura, Sucumbíos e Orellana. La decisione di Lasso arrivava dopo che in una protesta a Sushufindi, nella provincia amazzonica di Sucumbíos, si era registrata la morte di un militare. Il presidente ha sostenuto che “non è possibile negoziare con chi vuole privare l’Ecuador della sua pace”, che il governo ha dato “risposte concrete alle richieste delle organizzazioni” e non si siederà a trattare finché ci sarà Leonidas Iza. Solo in presenza di rappresentanti legittimi di tutti i popoli indigeni e delle nazionalità dell’Ecuador, aperti a cercare soluzioni mediante un dialogo reale e franco, il governo sarebbe tornato al tavolo.
Alla rottura del dialogo, hanno reagito sia la Conaie sia le associazioni garanti: la Confederazione degli indigeni ha dichiarato sul suo account Twitter: “Il governo interrompe il dialogo confermando autoritarismo, mancanza di volontà e incapacità. Riteniamo Lasso responsabile delle conseguenze della sua politica bellicosa. Chiediamo rispetto per il nostro massimo leader. Lasso non rompe con Leonidas, rompe con le persone”. I garanti del dialogo hanno, a loro volta, invitato il presidente a tornare sui suoi passi. Da parte del movimento, c’è un forte risentimento verso il governo per la reazione alle notizie delle morti di civili, in confronto a quella di un unico militare: durante le proteste, centinaia di persone sono state ferite e sei sono decedute, cittadine e cittadini che hanno abbandonato le occupazioni quotidiane per lottare per i diritti di un Paese intero, e sono arrivati a perdere la vita.
Dopo diciotto giorni dall’inizio dello sciopero, tuttavia, le parti sono giunte a un accordo: la comunicazione è stata fatta nel corso di una cerimonia presso la sede della Conferenza episcopale ecuadoriana, mediatrice nella trattativa. Il governo ha revocato lo stato di emergenza, ha promesso di abbassare il prezzo del carburante di quindici centesimi di dollaro, cinque in più di quanto offerto inizialmente da Lasso, e di approvare un pacchetto di misure di assistenza sociale per le famiglie contadine. Oltre a queste misure, il governo si è impegnato a non approvare più concessioni minerarie e petrolifere nelle riserve naturali.
Sarebbe riduttivo parlare soltanto di un movimento dei popoli indigeni, perché in molte città diversi settori della società sono scesi in strada nelle manifestazioni indette dalla Conaie: studenti, cittadini della classe media, lavoratori e lavoratrici. Il malcontento del popolo è un sentimento generalizzato; e il presidente ha dovuto rispondere al movimento offrendo delle soluzioni concrete che, a lungo termine, possano risanare le condizioni del Paese. Quasi tre settimane di sciopero nazionale, le attività di un’intera nazione bloccate, ma alla fine il movimento è riuscito a portare a casa dei risultati. Iza avverte però che ya basta: se non vedranno l’accordo concretizzarsi entro novanta giorni, occuperano di nuovo le strade dell’Ecuador, come nell’ottobre del 2019.