I campionati mondiali di calcio del 1974 furono tra i peggiori della storia della nazionale italiana. Fu eliminata al primo turno e l’unica vittoria, stentata, fu contro Haiti, il più povero Paese dell’emisfero occidentale, assurto appunto agli “onori” delle cronache per aver partecipato alla massima competizione calcistica internazionale e messo in difficoltà i vicecampioni del mondo del 1970. Prima di allora, quasi nessuno conosceva questo piccolo Stato caraibico. Vessato dalle dittature, tanto per cambiare spesso sostenute dagli Stati Uniti, dai terremoti – l’ultimo, nel 2010, ha provocato oltre duecentomila morti –, da una classe politica corrotta e da una violenza da sempre endemica nell’isola (Haiti condivide Hispaniola con la Repubblica dominicana), sabato 25 giugno ha fatto parlare di sé per l’uccisione della suora italiana Luisa Dell’Orto, probabilmente nel corso di un tentativo di rapina. La notizia è stata diffusa dall’Arcidiocesi di Milano.
Si tratta di una di quelle tante e troppe storie che gridano vendetta. Da vent’anni a Haiti ad aiutare gli “ultimi della terra”, è stata probabilmente assassinata da persone simili a quelle che ogni giorno aiutava. Vittima, dunque, di quella violenza che lei combatteva quotidianamente. Amata dalla gente del posto, che aveva cercato di garantirle un minimo di sicurezza, non aveva esitato a fronteggiare uno scenario sociale, prima ancora che politico, che si può definire senza esitazione infernale. È stata uccisa mentre camminava in una delle strade del centro della capitale, Port au Prince. Aveva 65 anni. Erano i bambini, che la chiamavano “Sœur Luisa” coloro che più di ogni altri godevano della sua attenzione, ed era stato grazie al suo impegno se – attraverso la Caritas – era arrivato un consistente finanziamento per ricostruire “Casa Carlo”, una struttura che offriva uno spazio sicuro ai bimbi del poverissimo quartiere, dove ha vissuto negli ultimi vent’anni, e che era stata distrutta nel terremoto del 2010. Laureata in filosofia, Luisa, fin dal 1984, si era unita alla Congregazione delle piccole sorelle del Vangelo di Lione, ed era divenuta missionaria prima in Camerun, poi in Madagascar e infine a Haiti. Il suo sacrificio è stato ricordato domenica scorsa da papa Francesco: “Suor Luisa ha fatto della sua vita un dono per gli altri, fino al martirio”, ha sottolineato Bergoglio. Come spesso succede in questi luoghi della disperazione, dove pur non essendoci delle guerre dichiarate si è di fronte a scenari molto simili, sono i missionari a rischiare di più e a essere presi di mira, vista anche la loro assoluta vulnerabilità.
Il 16 ottobre scorso, diciassette missionari cristiani mennoniti – sedici statunitensi e uno canadese – sono stati rapiti dal gruppo armato 400 Mawozo che, insieme ad altre gang, è diventato una vera e propria banda paramilitare, mentre si stavano recando in visita all’orfanotrofio che loro stessi avevano contribuito a costruire. Con il gruppo, erano anche quattro bambini e un neonato di otto mesi. I continui appelli di Pierre-André Dumas, vescovo della diocesi di Anse-à-Veau-Miragoâne, oltre all’intervento della polizia e dell’Fbi, hanno permesso la liberazione di due di questi il 21 novembre. Degli altri nessuna notizia.
La pratica del sequestro è diventata via via sempre più diffusa, messa in atto da bande giovanili che infestano almeno la metà del Paese e detengono mezzo milione di armi, contro le quali poco possono una polizia e un esercito carenti di unità. A peggiorare la situazione, lo stallo politico che il Paese vive, in particolare dopo l’uccisione del presidente Jovenel Moïse, il 7 luglio 2021 (vedi l’articolo di Rino Genovese qui), forse per mano di narcos colombiani, con i quali il capo dello Stato haitiano aveva probabilmente a che fare. Al suo posto, subentrava l’ex primo ministro Ariel Henry, oggi presidente ad interim, che nei mesi scorsi ha deciso di rinviare la data delle elezioni, già programmate per lo scorso novembre, al 2022, ma senza aver fissato una data.
Il ruolo dei gruppi armati va ben al di là di un’attività criminale come quella delle pur pericolose pandillas dell’America centrale. Lo spiega bene Marco Bello, giornalista, scrittore, vincitore del premio giornalistico “Lorenzo Natali” della Commissione europea su democrazia e diritti umani, grazie appunto a un servizio su Haiti: “Le gang sono legate, in parte, ad alcuni politici che negli anni le hanno create e finanziate. Sono a loro strumentali, per esempio, al fine di impedire che la gente scenda in piazza a manifestare. Il fenomeno è talmente degenerato, dopo l’assassinio del presidente Moïse, che si può parlare di assenza dello Stato in ampie zone del Paese. Tra ottobre e novembre 2021 – aggiunge Bello – le gang sono arrivate a controllare l’uscita delle autobotti di carburante dal porto, chiudendo il rubinetto dei distributori e bloccando il Paese. Mentre l’inflazione galoppa e i prezzi aumentano, e la gente ha difficoltà a comprare i generi di prima necessità”.
Sul piano politico, la morte di Moïse ha aperto scenari complessi nei quali tuttavia, per il momento, a trarne vantaggio è proprio Ariel Henry, sostenuto dal cosiddetto core group (Stati Uniti, Francia, Germania, Spagna, Canada, Brasile, Unione europea, Onu, Osa), mentre l’ex presidente Michel Martelly, vicino a lui, punterebbe a ottenere un nuovo mandato. Questa classe politica, la più potente e controversa del Paese, fa riferimento al più importante partito haitiano, il Parti haïtien Tèt Kale (Phtk), i cui dissidi interni, secondo alcuni opinionisti, avrebbero portato all’assassinio dell’ex capo dello Stato, organizzato, secondo queste fonti, dallo stesso Martelly.
Contro il Phtk è nata, il 30 agosto 2021, una coalizione di associazioni e partiti di sinistra – per quello che può significare “sinistra” a Haiti – che hanno firmato un accordo noto come “accordo di Montana”, dal nome dell’albergo in cui si è tenuta la riunione. L’intesa ha proposto un Consiglio nazionale di transizione, formato da quaranta membri. Organismo con una forte connotazione progressista, che però non ha impedito di estendere l’alleanza a partiti della destra tradizionale, relativamente democratica, riuniti nel Protocollo d’intesa nazionale (Pen). “Il Montana-Pen – puntualizza Bello – si contrappone al governo Henry, con il quale però deve negoziare per arrivare a una transizione prevista di circa due anni, che porterebbe a nuove elezioni generali e quindi a uno stato di rispetto della Costituzione. Ma i rapporti di forza – prosegue – sono, in questo momento, favorevoli al gruppo di potere del Phtk”.
Chiunque dovesse vincere dovrà porre le basi della rinascita del Paese, dando opportunità a quei tanti giovani e giovanissimi che popolano l’isola. Ma se uomini e donne come Luisa Dell’Orto saranno lasciati di fatto soli, in questo concentrato di disperazione, sarà difficile far prevalere l’ottimismo.