Fin dal suo inizio, era chiaro che il governo Draghi non avrebbe potuto dirsi un governo tecnico. Del resto, governi che in Italia si sono succeduti sotto questa dicitura – come quelli di Ciampi, di Dini, di Monti – hanno finito per incidere sulle vicende politiche, sociali e istituzionali del Paese assai più profondamente e durevolmente di quanto non abbiano fatto gli esecutivi nati con lo stigma della politica. Chi non ricorda che fu sotto il governo Ciampi che si impose il modello della concertazione tra le parti sociali, che minò la potestà salariale del sindacato, concausa del fatto che, mentre altrove le retribuzioni sono salite, in Italia hanno perso in trent’anni il 2,9% del loro valore? E chi può dimenticare che fu con il governo Dini che si fece una delle più importanti controriforme che hanno segnato la storia sociale del Paese e la vita quotidiana dei suoi cittadini, quale quella delle pensioni? Che poi il governo Monti, tramite l’opera della Fornero, ulteriormente peggiorò. Nel momento in cui, con la loro stessa presenza, quei governi evidenziavano la crisi della politica, diventata un tracollo negli anni Novanta, essi, forti delle forze sociali dominanti che li sostenevano, seppure a termine, esercitavano più fortemente e direttamente il potere politico di cui venivano investiti.
Con il governo Draghi, si è fatto un rilevante passo avanti nella stessa direzione. Con esso si realizza una compenetrazione tra governance europea e governo nazionale, in modo molto più forte ed evidente che non nel passato. Si può ben dire che Draghi non sia stato il “pilota automatico” messo in azione per l’ignavia e l’incapacità dei ceti politici e sociali dominanti. Draghi è piuttosto l’ingegnere costruttore di un determinato meccanismo/sistema, che tende a superare le forme classiche della democrazia, così come l’abbiamo conosciuta, pur con tutti i suoi difetti.
Il percorso di costruzione dell’Unione europea è stato contrassegnato dalle teorie funzionalistiche e dei piccoli passi, dall’economia alla politica, di Jean Monnet e David Mitrany. La crisi della democrazia classica, come l’abbiamo vista svilupparsi nelle società europee a capitalismo maturo, ha subito una forte accelerazione con la fine dei cosiddetti trent’anni gloriosi, per l’incapacità e non volontà di rispondere positivamente alle domande e ai bisogni più complessi delle popolazioni, sviluppatisi a seguito della stessa lotta di classe, di cui il welfare era stato a un tempo l’esito e il pompiere.
Come ha osservato Danilo Zolo, fu Niklas Luhmann a interpretare, nel modo più coerente e raffinato, gli interessi di classe tardoborghesi. Negli anni Ottanta, in particolare, Luhmann “appare allora come una sorta di mandarino tecnocratico, fautore di un modello di democrazia manageriale acriticamente dedotto dalla cultura nordamericana: nient’altro che un trait d’union ideologico fra il capitalismo statunitense e il capitalismo tedesco”. Per Luhmann – sostiene Zolo che al suo pensiero dedicò importanti studi – “la politica non è più l’espressione generale della vita sociale: è un ‘sottosistema’ autonomizzato, differenziato e specificato funzionalmente” e “il risultato complessivo dal punto di vista funzionale è l’esclusione dal processo politico della conflittualità sociale radicale […] e l’assorbimento delle ‘proteste del pubblico’ attraverso canali di amalgamazione degli interessi non antagonistici o una loro deviazione in ambiti di irrilevanza politica” (dal saggio introduttivo di D. Zolo a N. Luhmann, Potere e complessità sociale, il Saggiatore, 1979).
Se poi si guarda alla biografia politica di Mario Draghi, si può valutare ancora meglio quale sia stato il suo apporto specifico alla costruzione di questo sistema. Qui abbiamo l’ingegnere costruttore, non solo il suo robot. Draghi ha interpretato diverse fasi della edificazione di questa Europa, qualunque sia stato in quel preciso momento il suo ruolo pubblico. Quelle fasi sono almeno quattro, e tutte decisive, di cui è possibile seguire una successione cronologica, salvo parziali sovrapposizioni temporali.
L’epoca delle grandi privatizzazioni, quelle decise a bordo del Britannia, per cui il nostro Paese divenne il secondo, dopo l’Inghilterra thatcheriana, per volume nel valore delle dismissioni dei beni dello Stato, accompagnate dal fanatismo rigorista che finirà per partorire l’assurdo fiscal compact e l’accanimento brutale nei confronti della Grecia. La famosa lettera del 5 agosto del 2011, firmata assieme con Trichet e inviata al governo italiano, che tracciò un percorso di lacrime e sangue puntualmente eseguito dai governi che seguirono. Il lancio, seppure tardivo rispetto ad altre parti del mondo, della politica monetaria espansiva, con il Quantitative easing. Per arrivare all’intervento sul “Financial Times” del 25 marzo dello scorso anno, nel quale il debito (quello “buono”, non per fini assistenzialistici o per tenere in vita imprese zombi, preciserà altrove) smetteva di essere un tabù e, allo stesso tempo, si denunciavano i limiti di una politica monetaria espansiva non accompagnata da modifiche strutturali.
Svolgendo la pellicola, si ha la visione precisa del costruirsi di una politica, quella del tempo della lotta di classe dopo la lotta di classe – avrebbe detto Luciano Gallino – dal punto di vista dei vincitori. Con Draghi, quindi, non assistiamo alla morte di tutte le politiche, ma al funerale di quella di cui sopravviveva solo un ingannevole crisalide, una volta che la rappresentanza politica di una delle parti del conflitto sociale era stata – o si era – cancellata.
Le modalità di formazione del suo governo hanno presentato non poche anomalie, anche sotto il profilo costituzionale. Lo si può anche definire un governo del presidente, nei limiti in cui questa definizione ha senso in un sistema che ancora mantiene la forma del governo parlamentare. Senza indulgere a inutili dietrologie, l’insolito attivismo del capo dello Stato ne ha certamente determinato l’atto di nascita, nel vuoto umiliante di iniziativa delle forze politico-parlamentari. Se si guarda dal buco della serratura dell’oscillazione dello spread, non si sono verificati allora crolli drammatici, come in un più lontano passato. Ma questo dimostra solo la compenetrazione della nostra economia, nel quadro internazionale, e le attese legate all’innovativo intervento europeo. Senza risolvere il problema della diminuzione dell’occupazione, con giovani e donne le prime vittime, o lo sprofondare del nostro Mezzogiorno. Gli attuali ritardi del Recovery Plan, malgrado le ripetute assicurazioni di Draghi sul compimento delle cosiddette riforme, non sono temporali, quanto culturali.
Una classe dirigente convertita al mito dell’austerità e del rigore, naturalmente applicati non a sé (si pensi all’isterica reazione a fronte di una timida proposta di patrimoniale) ma ai più deboli, ovvero alla stragrande maggioranza della popolazione, con difficoltà può essere rieducata alla capacità di spesa. Chi ha negato in ragione di principio la possibilità dell’intervento pubblico diretto a impostare un nuovo tipo di sviluppo economico, trova incompatibile l’idea stessa di programmazione. Né certamente Draghi ha aiutato a superare questa negativa eredità.
L’Unione europea si aspetta che l’attuale governo dia piena implementazione al Piano di ripresa e resilienza, lungo un percorso temporale che travalica la fine dell’attuale legislatura. Anche l’Unione mette in discussione il proprio futuro. Se il Recovery Plan non dovesse avere successo in Italia – terza forza economica della Ue e terzo contributore del bilancio europeo –, il fallimento si ripercuoterebbe sull’Europa nel suo complesso. Allo stesso modo, la Nato e gli Stati Uniti si attendono dal governo italiano un di più di filoatlantismo, peraltro già abbondante nella storia italiana del dopoguerra. Per questo ci è toccato sentire che il governo non può farsi commissariare dal parlamento, in tema di invio delle armi all’Ucraina. Un capovolgimento dei rapporti fra esecutivo e legislativo. Non v’è da stupirsi, quindi, se in ambito nazionale e internazionale le classi dirigenti e i ceti politici dominanti si augurino che Draghi resti come presidente del Consiglio anche oltre il 2023. Nulla verrà lasciato intentato per garantirlo. Anche la recente rottura nei 5 Stelle può essere letta in questa luce.