Il ceto medio del mondo va a destra. E i diritti, senza conflitto sociale, sono sempre revocabili. Sembra questa la lezione che ci viene dagli Stati Uniti. Siamo nel pieno di un processo di riconfigurazione delle culture e delle relazioni sociali in cui, come proprio un secolo fa, in quei tormentati e maledetti anni Venti del Novecento, la destra trova il modo di saldare, nella sua rivoluzione passiva, i gruppi di comando a un popolo di irrequieti e precari aspiranti borghesi. Come allora, dopo la velleitaria stagione dell’assalto al cielo, gli Stati si sostituirono ai partiti, azzerando le forme del conflitto sociale, e imponendo interessi nazionali per subordinare quelli di classe.
Il voto antiabortista della Corte suprema americana, che arriva dopo un inesorabile domino reazionario, in cui prima gli Stati del Sud, poi la presidenza Trump, infine l’affondo dei movimenti fondamentalisti, avevano dissodato il terreno, sancisce questa realtà: il Paese che ha inventato la middle class si trova oggi imprigionato in una morsa “democratica” in cui una maggioranza conservatrice diffusa stringe d’assedio le élite liberal.
Dopo il pronunciamento sulle armi, ora la sentenza che revoca l’inviolabilità del diritto all’aborto apre la strada a una rivoluzione reazionaria e proprietaria che nei prossimi mesi vedrà cadere, sotto la tagliola della Corte suprema nominata da Trump, i diritti omosessuali, la contraccezione e la fecondazione in vitro. Un ritorno indietro di oltre cinquant’anni, che ci parla non di una mera sbandata restauratrice, ma di un assestamento nella dinamica politica fra forze e movimenti del tutto inediti, in cui prevalgono istinti e modelli neoperonisti.
Il Paese guida dell’Occidente si trova oggi in preda alle pulsioni sovraniste e oscurantiste di una potenziale nuova maggioranza antiprogressista, in cui non aree marginali, ceti arroccati in enclave fondamentaliste, comunità localmente frustrate da depressioni economiche, ma proprio la pancia profonda della sua borghesia professionale e bottegaia, che nel pieno di una congiuntura economica non avversa si combina con le comunità evangeliste, che formano ormai la vera ideologia della provincia americana, per accerchiare, nelle grandi aree urbane, i ceti liberal e globalisti, considerati ormai i trasgressori del patto federalista dei padri pellegrini.
Forse per la prima volta, nel Paese della grande frontiera, si sta surriscaldando proprio la linea di congiunzione che ha garantito fino a oggi la tenuta del federalismo nelle diversità, dalla guerra di secessione fino alle contrapposizioni sulle discriminazioni razziali e alle grandi battaglie sulla povertà e i monopoli. La chiave di quanto accade, di cui il trumpismo è la conseguenza e non la causa, la troviamo nel fatto che la reazione più vibrante alla decisione shock dei supremi giudici sia giunta da un gruppo di grandi aziende, prevalentemente dell’economia digitale o comunque metropolitana – da Starbucks a Tesla, da Airbnb a Netflix e ancora Patagonia, DoorDash –, pure, al loro interno, non certo accondiscendenti con le richieste di rappresentanza sindacale dei lavoratori, che si sono dette pronte ad assicurare alle proprie dipendenti le risorse per andare ad abortire negli Stati che lo consentono in caso di necessità. I grandi centri del capitalismo globale, che vivono su uno stile di organizzazione sociale liberista-libertario, sono oggi i promotori di un capitalismo edonista e individualista, non recintato da norme statali e tanto meno da vincoli ideologici. Una morsa davvero paradossale, che dagli Stati Uniti sta attraversando e riconfigurando l’intero Occidente.
La rintracciamo nella Francia che azzoppa da destra Macron, o nell’Inghilterra che ribadisce il voto a favore della Brexit, o ancora nella Spagna che resuscita le pulsioni neofranchiste, o nella stessa Italia, che ha visto collaudare una maggioranza gialloverde di convergenza fra populismi di varia natura, per poi trovarsi, ancora oggi, a inseguire l’araba fenice di un centro moderato, e a trovare sempre e solo radicalizzazioni reazionarie, che premiano, dopo Salvini, i postfascisti di Meloni.
Una globalizzazione senza contrappesi ha generato i mostri di un neonazionalismo corporativo, che trova il proprio collante nella contrapposizione a ogni cultura di integrazione e di contaminazione. Torna qui il richiamo a un secolo fa, a quel decennio degli stregoni, come lo ha definito nel suo saggio sul secondo decennio del Ventesimo secolo, Wolfram Eilenberger che ha tracciato la più lucida cartografia della nascita di quella destra che avrebbe bruciato poi il mondo. Matrice ne furono i filosofi dell’identità, fra tutti Martin Heidegger, con la sua concezione dell’autenticità “di ogni essere umano” che “può essere veramente a casa e autentico solo nel suo luogo d’origine”. Questa idea fu la scintilla della fornace nazionalsocialista, fino agli orrori della seconda guerra mondiale.
Oggi ci troviamo accanto a élite che contendono a un’aristocrazia immateriale – che ha confiscato ogni opzione alternativa ai propri interessi – un popolo addestrato al rancore e alla lotta antiglobalista, per recuperare una funzione nella storia che la nuova economia digitale gli nega. Anche oggi, come scriveva Hannah Arendt circa le ragioni del consenso popolare al nazismo, sembra che “le plebi vogliono entrare nella storia anche a costo della propria distruzione”.
In questo scenario, vediamo del tutto scomparire la bucolica visione di una maggioranza silenziosa moderata da irretire con una proposta rassicurantemente moderata, come qualche apprendista stregone di casa nostra sembra vaticinare. Il ceto medio, la middle class, è oggi base sociale di una radicalizzazione di centro, di un vero sovversivismo delle classi dirigenti, come ha scritto Gramsci, che così spiega questa forma di reazione ai processi di riassimilazione del ceto di comando: “La classe dirigente è ‘saturata’: non solo non si diffonde, ma si disgrega; non solo non assimila nuovi elementi, ma disassimila una parte di se stessa (o almeno le disassimilazioni sono enormemente più numerose delle assimilazioni)” (2, 8: 937). Questa disassimilazione è oggi la matrice della svolta reazionaria.
La premessa e conseguenza di questa rinegoziazione del potere fra ceti dirigenti è la scomparsa di ogni forma di conflitto sociale come processo di contrattazione del lavoro, e dunque delle relazioni umane e istituzionali. Tutto inizia con la svolta degli anni Novanta – di cui l’89 a Berlino è l’emblema, ma certo non la ragione esaustiva –, in cui appaiono esaurirsi i conflitti sociali, basati sulla contesa nell’organizzazione del lavoro e nella divisione del reddito fra lavoro e capitale, con un culto dei diritti di cittadinanza in grado di assicurare un modello di vita più autonomo e libertario, così come pure quell’onda lunga di emancipazione sociale, sorretta dai grandi movimenti giovanili e del lavoro degli anni Sessanta e Settanta.
Gli effetti di quella poderosa spallata all’immutabilità del capitalismo, che fece tremare tutto il pianeta, produssero anche le condizioni per dare un corredo di diritti civili alle rivendicazioni di classe: divorzio, aborto, manicomi, giustizia, informazione, medicina – furono i terreni su cui la spinta operaia e giovanile diede sostanza e forza alle richieste di libertà. Il movimento delle donne, che pure costrinse le esperienze sindacali e politiche a sinistra a maturare sul versante dell’eguaglianza di genere, poterono pretendere non solo attenzione ma leggi per riconfigurare i modi di vivere. La complessità delle lotte del lavoro metteva infatti in discussione la famiglia, le città, le istituzioni, i grandi baronati professionali, riformulando identità e prefigurando nuovi ruoli che sostituivano le pure rendite di posizione.
A quell’offensiva di figure sociali subalterne, come i lavoratori massa nelle imprese e gli studenti nelle città, si è gradualmente sostituita una micronizzazione delle relazioni sociali. Zygmunt Bauman sintetizzava la sua visione sulla “società liquida” parlando di una triade di massa – lavoro, consumi e media – sostituita da una individualizzata – lavoro individuale, consumi personalizzati e media on demand. Una trasformazione che ha sbriciolato ogni ambiente e luogo di conflitto, sbalzando ogni individuo in un microcosmo digitale in cui il proprietario del sistema appare troppo lontano per essere ingaggiato in un’azione negoziale.
Negli ultimi trent’anni, con l’espansione della società automatica, sparisce l’idea stessa di conflitto sociale e di negoziazione del sistema produttivo. In questo riflusso, la terziarizzazione diventa rancorosa rincorsa a nicchie speculative per assestarsi a dispetto del proprio vicino. Si contrappongono così due grandi coalizioni: una che vede vertici sociali, affermati intellettualmente e professionalmente autonomi, in grado di esibire una visione progressista e illuminata, senza dover pagare pegno, rivolti con il loro sguardo compassionevole ai ceti più emarginati e sfruttati in un’alleanza dei primi con gli ultimi; e un’altra, la quale di contro alla prima si gonfia come popolo della rivendicazione corporativa e sovranista, in cui spiccano “figure di rincorsa”, che cercano forme di successo e arricchimento per agganciare le prime posizioni – chiamiamoli i secondi –, combinandosi con quell’estesa gamma di figure subalterne che si sentono minacciate dagli ultimi nella spartizione dei redditi sociali, chiamiamoli i penultimi.
La cerniera che collega e incolla questi frammenti è la potenza di calcolo, una risorsa immateriale che riorganizza e ricolloca profili professionali e sociali nel processo di sostituzione del lavoro con il sapere, spostando da Il capitale ai Grundrisse il Marx che può ancora parlare alla contemporaneità. Su questo nuovo terreno – quello dell’etica e dell’estetica delle relazioni digitali – si deve ricalibrare un movimento che possa ambire a disgregare l’unità del fronte proprietario e speculativo, riaggregando interessi e alleanze sul terreno di una libertà concreta e materiale, in cui quello all’aborto, come tutti i diritti civili, sia complemento di una liberazione dal dominio tecnologico, e non una partita separata e settoriale in cui inevitabilmente si perderebbe.