D’accordo, la partecipazione è stata bassa, i ballottaggi per i Comuni non appassionano più di tanto l’elettorato, e queste elezioni vanno prese per quello che sono; ciò nondimeno, è netto il successo del “campo largo” di Letta e dei 5 Stelle di Conte. A Verona, complice la divisione nella destra, il risultato appare addirittura storico: diventa sindaco Damiano Tommasi, dopo una lunga stagione di prevalenza berlusconiano-leghista. Ma non solo lì. A Monza come a Catanzaro passano i candidati di centrosinistra; mentre a Lucca, solo per un soffio, una destra alleata con CasaPound può cantare vittoria. E nella città toscana si è visto anche cosa possa significare la politica del “centro riformista”, con il candidato del fantomatico terzo polo che, pur in dissenso con i suoi sostenitori, al secondo turno si è orientato a destra.
Letta e i suoi avranno adesso da lavorare per tradurre questo successo in una linea politico-programmatica in grado di fermare le destre sul ciglio del possibile baratro chiamato “elezioni del 2023”. È un po’ il refrain di “terzogiornale”: siamo critici del Pd, ma ne riconosciamo, in questa fase, la “centralità” (nel duplice significato del termine, se si vuole) in termini elettorali. La posizione del “tanto peggio, tanto meglio” non sarà mai la nostra. Secondo alcuni, infatti, per fortuna minoritari, il Pd andrebbe cancellato per liberare dalla crisalide chissà quale farfalla di sinistra. Non è così. Il Pd non va distrutto, va criticato perché “sdraiato” sul governo Draghi – da ultimo, sulla questione della guerra in Ucraina, su cui abbiamo apprezzato la posizione più prudente di Conte –, va messo in discussione già per il modo in cui si costituì e per l’insulsa imitazione del Partito democratico americano circa il rito delle “primarie”. Per quanto ci riguarda, inoltre, è da sempre sotto accusa per avere pressoché eliminato dal suo Dna la matrice di una sinistra legata al mondo del lavoro, diventando così una forza politica un po’ per tutte le stagioni.
Non sarebbe neppure in questione l’“interclassismo”, che già fu della componente democristiana del suo attuale personale politico: piuttosto è sulla qualità e sulle “dosi” di questo interclassismo che ci sarebbe da ridire, essendo sostanzialmente assente ancora oggi (prescindendo quindi dalla fase renziana) una proposta capace di tenere insieme i lavoratori tradizionali, i pensionati e così via, con quegli altri che, sempre più precarizzati, neppure riescono a immaginarsi una pensione. Il fatto stesso che Letta non si stia impegnando più di tanto – come invece dovrebbe – sulla necessità di introdurre un salario minimo in Italia; la circostanza che abbia rinviato probabilmente alla prossima legislatura la battaglia su un provvedimento del genere, che trarrebbe fuori migliaia di lavoratori dallo sfruttamento più nero e da una condizione di working poors, la dice lunga su che cosa sia il Pd.
Tenere insieme, in un “campo largo” sociale, il padroncino sfruttatore e il suo dipendente non si può. Un nuovo centrosinistra (non parliamo di una sinistra, che da un bel po’ manca in Italia) dovrebbe fare delle scelte – per non consegnare un elettorato sfiduciato all’astensionismo o direttamente alla destra. Soltanto un’impostazione programmatica chiara, sorretta da un impegno visibile già oggi, potrebbe dare a un centrosinistra rinnovato – o a una posizione centrista appena un po’ inclinata a sinistra – la chance di battere la destra. Poi chi vivrà vedrà. È possibile che l’odierna opzione tecnocratica nel bilanciamento tra interessi più o meno corporativi, alla base del governo Draghi, sarà alla fine maggioritaria nel prossimo parlamento nazionale (decurtato, come si sa, di quasi la metà della propria rappresentanza). È probabile che un Pd votato alla mediazione e al compromesso, più che alla battaglia politica, accetti senza fiatare l’eventuale prolungamento sine die di questo quadro politico. Se non altro, però, si sarà riusciti a contenere la spinta più marcatamente di destra.