Il neoeletto presidente della Colombia, Gustavo Petro, 62 anni, ex sindaco di Bogotà, senatore da due legislature, è una novità per l’intera America latina. Ha un profilo inedito, che coniuga passato e futuro nei termini di un’avanzata modernità, finora mai messa in campo. Promette a tutti i cinquanta milioni di concittadini una profonda trasformazione politica, economica e istituzionale, senza vendette, anzi, in uno spirito di riconciliazione. Ha l’esperienza e il carattere per portarla avanti. Dopo la vittoria, giurando sulla propria vita fedeltà agli elettori riuniti nello stadio della capitale, ha detto con arguzia: “Sapremo sviluppare il capitalismo, che non è il nostro sistema preferito; ma in Colombia dobbiamo cominciare a superare il feudalesimo…”.
Proprio la radicalità del suo programma, e la coerenza con cui l’ha difeso, sembrano avere conquistato molti giovani, portando loro alle urne e lui a Palacio Nariño. Ha respinto fino all’ultimo le insistenze del suo stesso entourage a depurarlo di qualcuno dei punti più spinosi, per far fronte nel secondo turno a un avversario saldamente rafforzato dal sostegno dell’intera destra tradizionale, trainata dall’estrema dell’ex presidente Álvaro Uribe. Non in quanto convinto della vittoria, bensì del pericolo dei compromessi, che in caso di successo avrebbero poi finito per disarticolare l’azione di governo, fino a nullificare quella che è considerata un’occasione storica. Al suo terzo tentativo, Gustavo Petro è riuscito a divenire così il primo candidato della sinistra nella storia colombiana a essere eletto capo dello Stato.
Ha ricevuto il 50,5 %, 11 milioni e 284mila voti, dai quasi ventidue milioni di elettori (il 60% circa degli aventi diritto). Il suo avversario, l’immobiliarista milionario Rodolfo Hernández, 77 anni, un populista che ha evitato qualsiasi confronto pubblico con Petro, così come con tutti gli altri candidati fin dal primo turno, è arrivato a 10 milioni e 581mila suffragi. Senza essere clamoroso, il vantaggio di 750mila voti, accumulato da Petro, è aritmeticamente netto e ancor più solido in termini politici. Tanto che il diretto sconfitto ne ha riconosciuto subito il trionfo. Immediatamente seguito dal più acerrimo nemico di Petro, l’ex presidente Uribe: “Per difendere la democrazia – ha detto – bisogna rispettarla: Petro è il nuovo presidente della Colombia”.
Entrerà in carica il 7 agosto prossimo, insieme con la sua vice, la quarantenne Francia Márquez, un’avvocata nota per l’impegno nella difesa dei diritti umani. La disputa sulla legittimità del voto è dunque uno scampato pericolo, soltanto il primo, ma non da poco. L’impresa che il neoeletto propone è immane, lo sarebbe ovunque; assume i caratteri della sfida rivoluzionaria, in un contesto in cui il dinamismo della società e la forza preponderante degli interessi costituiti, sulla base del privilegio e della corruzione, si scontrano da decenni generando un’ininterrotta, tragica violenza. Le bande guerrigliere ancora attive nel Paese, il narcotraffico, i latifondisti che si sono impadroniti delle proprietà di milioni di profughi dai trascorsi decenni di guerra, sono i prossimi nemici da sconfiggere.
Sono tutte battaglie connesse una all’altra. Impossibile consolidare la pace, che pure ha compiuto giganteschi passi avanti con il disarmo concordato con le Farc, se non vengono almeno arginati il banditismo politico, quello comune e il traffico di stupefacenti che li finanzia. Per questo Gustavo Petro parla non solo di riforma agraria, ma di “democratizzazione del mondo rurale”. Una riforma fiscale – che imponga un prelievo progressivo, a cominciare dalle quattromila maggiori fortune del Paese (già censite) – è indispensabile e urgente per coprire il permanente deficit di bilancio e garantire le spese correnti. Tra i primi provvedimenti, vi sarà la ripresa dei rapporti con il Venezuela, capaci di produrre uno stimolo decisivo nella ripresa delle attività produttive.
Petro evita di condannare o assolvere il governo di Maduro. Semplicemente rifiuta di far sopportare alla Colombia parte dei costi dell’isolamento a cui è stato ridotto il Venezuela, senza beneficio per nessuno. Fa conto sulla crisi internazionale, scatenata dall’aggressione della Russia all’Ucraina, e sulla conseguente ripresa, sia pure parziale, dei rapporti tra Washington e Caracas, per ripristinare condizioni diplomatiche e giuridiche accettabili. È anche una via per liberarsi delle centinaia di migliaia di profughi venezuelani, che da anni ormai costituiscono una delle numerose emergenze sostenute dalla Colombia. Le riforme previste, che comprendono quella pensionistica e l’estensione della scuola pubblica e gratuita fino all’università, richiedono un minimo di ordine che la società attende da tempo.
Il nuovo presidente suscita attese che non potranno essere soddisfatte in tempi brevi, e timori che in parte condurranno prevedibilmente a scontri molto aspri. La sua scommessa è di riuscire comunque a mantenere questi e quelle all’interno del confronto politico. Capacità non gliene mancano. Guerrigliero nelle file del movimento M19 negli anni Settanta, catturato e torturato dall’esercito, è andato esule in Belgio quando, dopo anni di carcere, ha potuto lasciare la Colombia. È sempre stato un quadro intellettuale più che un combattente arma alla mano. Il nome di battaglia, in quel periodo della sua vita, era Aureliano, tratto dal romanzo di Garcia Márquez. E scrivere è una passione che non lo ha abbandonato neppure al ritorno in Colombia e alla politica parlamentare.