Su quanto è stato pubblicato, anche su questo giornale, sulla famosa lista degli “opinionisti” filorussi, apparsa il 5 giugno scorso sul “Corriere della sera”, mi rifugerei nella famosa espressione usata da Pietro Ingrao al X congresso del Pci del 1966: “Se dovessi dire che la relazione introduttiva mi ha convinto non sarei sincero”. Non mi hanno convinto né l’indignazione generale né le critiche che sono apparse su “terzogiornale” firmate da Stefania Limiti.
In entrambi i casi, vedo una certa confusione nel misurare effetti e conseguenze di quel processo industriale – tale è ormai – che è oggi la comunicazione digitale. Un processo in cui le opinioni che affiorano sui media tradizionali, diciamo i media collettivamente fruiti, come giornali e tv generaliste, è solo una parte, anche la meno rilevante, di una pressione che individualmente colpisce centinaia di migliaia di utenti della rete, come le esperienze di Cambridge Analytica sia negli Stati Uniti sia in Europa, e in particolare in Italia nelle elezioni del 2018, ci hanno mostrato.
Ma, prima del merito, una considerazione sul metodo. L’articolo del “Corriere” viene presentato come un’inedita lista di proscrizione, che esporrebbe giornalisti che si muovono, a parere degli indignati, contro il cosiddetto pensiero unico, a non meglio precisate rappresaglie, e comunque li metterebbe in un potenziale mirino repressivo.
Davvero è così inconsueta questa pratica nei nostri media? Davvero scartabellando nei nostri cassetti non troviamo precedenti, numerosi e illustri, in cui proprio il fronte che contrastava il pensiero unico dell’epoca si affannava a denunciare chi nelle testate invece consolidava un controllo ideologico e disciplinare sulle redazioni? Penso, per esempio, per limitarmi alla mia esperienza e memoria, a cosa venne pubblicato negli anni della Strage di Stato da parte di chi lavorava nella controinformazione, fenomeno che ebbe allora straordinari meriti civili e professionali nell’aprire brecce in quello che era davvero un pensiero esclusivo e indiscutibile. Penso alla denuncia di chi, nelle redazioni, era accusato, e la magistratura in alcuni casi confermò, di farsi portatore delle veline dei servizi riservati; cito, tanto per rimanere alla cronaca del tempo, Guido Giannettini, oppure Giorgio Zicari, e, con loro, lenzuolate di giornalisti della destra più o meno estrema. Oppure, negli anni della P2, ricordo le paginate con foto e biografia di decine e decine di iscritti all’ordine dei giornalisti che apparivano negli elenchi di Castiglion Fibocchi, come Franco Di Bella, Maurizio Costanzo, Roberto Gervaso, Roberto Ciuni, Massimo Donelli. Erano colleghi al momento non incriminati penalmente, ma solo accusati di comportamento professionalmente scorretto. Lo stesso accadde, in altre occasioni, come gli scandali finanziari del Banco Ambrosiano o della Parmalat, dove non mancarono liste sui giornalisti contigui a questi interessi.
Per quanto riguarda invece le eventuali veline e “manine” che dai servizi possono arrivare in redazione, con soffiate e rivelazioni, basterebbe richiamare il caso Sifar, del 1964, svelato da una storica inchiesta del settimanale “L’Espresso”, che, poi scoprimmo, nacque proprio grazie a un’imbeccata che venne da parte di un gruppo di ufficiali più democratici.
Dunque non è il metodo che può indignare; anzi, forse la memoria dovrebbe consigliarci di riservare la dose di indignazione di cui siamo titolari per occasioni più adeguate.
Per il merito, invece, il caso diventa più complesso. Partiamo dall’oggetto in questione: abbiamo dinanzi un caso di possibili reati di opinione? Stiamo perseguendo liberi pensatori che esprimono autonomamente e singolarmente posizioni che si trovano a contrastare con le strategie del nostro Paese? Siamo in presenza di semplici testimonianze o ragionamenti difformi da un supposto mainstream ideologico? Oppure siamo in un quadro di contrapposizione geopolitica fra il governo italiano e quello russo, nel pieno di un’azione di attacco e destabilizzazione del sistema mediatico nazionale?
La guerra in Ucraina è un conflitto di media, si è detto. E persino chi scrive, su queste stesse colonne, ha cercato di ragionare sul concetto di giornalismo embedded. Non è la comunicazione che diventa propaganda, la vera novità della vicenda ucraina. L’elemento che cambia radicalmente lo scenario, rendendo l’informazione un vero campo di combattimento, è che l’insieme degli strumenti del giornalismo digitale sono diventati logistica militare.
La rete, i siti, i blog, gli schermi degli smartphone, i software di geolocalizzazione, i droni, sono veri e propri sistemi d’arma, che hanno concorso a mutare il corso degli eventi. Oggi, dopo tre mesi di scontri armati, la rete non è più quella del 23 febbraio 2022. È diventata uno spazio locale che coincide largamente con l’Occidente. I grandi gruppi tecnologici della Silicon Valley sono diventati i principali alleati del governo ucraino: Google, Facebook, Twitter – sono spazi di contesa che vedono i russi chiudere ogni legame con le comunità digitali e gli occidentali usare tutte le risorse per contenere l’aggressione alle città ucraine.
In questo scenario, l’informazione che scorre sulla rete è il prolungamento della guerriglia che i due schieramenti animano, attaccando e inibendo le risorse dell’avversario. Il generale Valerij Gerasimov, capo di stato maggiore russo, ha teorizzato apertamente questa strategia con un lungo saggio del 2013, in cui spiega come ormai si proceda nella nuova fase mediante capacità di “interferenza nelle psicologie dell’opinione pubblica del Paese avversario”.
Dopo quel saggio, la teoria divenne pratica: nel 2016, negli Usa, la campagna elettorale di Donald Trump fu sostenuta e drogata proprio dalla capacità di interferenza nelle psicologie dell’opinione pubblica da parte di Cambridge Analytica, che poi scoprimmo essere un centro di convergenza di interessi russi con la destra statunitense. Lo stesso avvenne nel referendum per la Brexit in Inghilterra. E anche nel nostro Paese – nelle elezioni del 2018, vinte da Lega e 5 Stelle – furono trovate tracce dell’azione dei ragazzi di Gerasimov.
Siamo dunque in una situazione in cui i sistemi di pubblicazione e indirizzamento – questo è il termine che ormai ha superato il vetusto verbo “pubblicare” – rappresentano un vero campo di battaglia, in cui si misurano le capacità tecnologiche e narrative dei sistemi geopolitici. Se un messaggio viene indirizzato e non pubblicato, vuol dire che qualcuno ha preventivamente organizzato un arsenale tecnologico che, sulla base di liste di utenti profilati e predisposti, si procede con un fuoco di fila per “interferire”, come dice Gerasimov, con le psicologie di questi utenti.
Il quadro in cui oggi si sviluppa il dibattito politico e giornalistico è questo, non certo quello di un’olimpiade del pensiero dove ognuno compete con le proprie idee. Sono migliaia di bit che producono messaggi mirati a centinaia di migliaia di utenti in rete per spiegare le ragioni del Cremlino.
Parallelamente a quanto avviene in rete, affiora anche nei media tradizionali un filone che appare meno naif di quanto si vuole fare intendere. Come peraltro dimostrano le biografie di questi liberi pensatori, come sono state descritte nell’articolo che stiamo discutendo sul “Corriere della sera”. Accanto a personaggi come il senatore Vito Petrocelli, quello che firmava con la Zeta gli auguri per il 25 aprile, o il prode professor Alessandro Orsini, che bollava Gramsci come un violento che doveva solo parlare con i porci – due degli opinion leader, che scopertamente fiancheggiano le posizioni di Putin –, troviamo personaggi alquanto eccentrici nella versione di giornalisti. Sono dentisti, economisti, che hanno combattuto nel Donbass, fotoreporter non precedentemente noti nelle redazioni; oppure veri e propri giornalisti di nazionalità russa, che operano da qualche mese in Italia. Figure, a parte qualche eccezione, che prima del 24 febbraio scorso non erano certo fra le più vitali sul fronte della discussione o della produzione redazionale, che all’improvviso hanno acquistato spessore, accesso a fonti esclusive, mezzi per viaggiare e attrezzature tecnologiche per produrre, in gran quantità, materiali informativi sulla guerra.
Tutte cose singolarmente legittime, messe insieme meno innocenti, e, considerate nel contesto di uno scontro frontale con Mosca, indizi da verificare. Esattamente come erano indizi da rendere pubblici le denunce sulla P2, o le contiguità con gli scandali finanziari. Ma al di là della polemica spicciola, quello che mi pare ormai non più esorcizzabile riguarda proprio il cambio di natura e di fisionomia che il sistema dell’informazione sta subendo. Oggi il giornalismo, come capacità di produrre contenuti diretti a interferire con le nostre opinioni, ormai afferisce alla cybersecurity di un Paese, a quella “infosfera” – direbbe Luciano Floridi – governata dallo scambio di informazioni e dall’accesso diretto alla nostra psicologia più intima. In questo processo, si separano le fonti dai fatti: le prime rimangono occasionali documentazioni di realtà; i secondi sono il risultato di un flusso massiccio di affermazioni che si sostituiscono alla realtà.
La digitalizzazione connette ormai stabilmente i segmenti più direttamente giornalistici con quelli più organizzativi e tecnologici, trasformando il mestiere – da semplice e limpida testimonianza di una verità che si deve conquistare giorno per giorno – in una contesa per il potere di “interferenza nelle psicologie altrui”. Una mediamorfosi che dovremmo, come giornalisti, analizzare e riconsiderare per non essere vittime né di omologazioni né di indignazioni interferenti.
Già negli anni Venti, un grande giornalista del tempo così intuiva il rischio di una manomissione del mestiere: laddove tutte le notizie sono di seconda mano e tutte le testimonianze sono incerte, gli uomini cessano di rispondere alla verità e reagiscono semplicemente alle opinioni che si sostituiscono appunto ai fatti. E oggi le notizie sono sempre di seconda mano, perché sempre sono state prioritariamente trattate da un algoritmo proprietario. Ora, il nodo è: chi governa questi algoritmi?