Sono passati quasi trentaquattro anni da quel 12 dicembre 1988 quando Chico Mendes, ambientalista e leader sindacale dei seringueiros dell’Amazzonia brasiliana, è stato ucciso. Un uomo semplice, che per decenni si era battuto per i diritti degli estrattori del prezioso caucciù dagli alberi della gomma presenti nella foresta pluviale. Da quei giorni, in Brasile sul fronte ambientalista non è cambiato praticamente nulla. Anzi, con la presidenza di Jair Bolsonaro sono stati fatti passi indietro nella tutela della foresta più grande del mondo se è vero che, sotto la sua presidenza, la deforestazione ha conosciuto un aumento del 76%, facendo arretrare la storia di trent’anni, tornando ai tempi della prima conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente, quando furono raggiunti timidi e faticosi progressi.
Ora – mentre negli Stati Uniti era in corso un inutile vertice tra i Paesi del continente, che su questo fronte non ha prodotto nulla, come ha dimostrato l’incontro tra il presidente degli Stati Uniti Joe Biden e quello brasiliano – altri due difensori dell’ambiente sono stati uccisi. Si tratta di Dom Phillips, giornalista del quotidiano britannico “The Guardian”, intento a realizzare un libro sui rischi per i nativi dell’Amazzonia, e Bruno Araújo Pereira, esperto di popoli indigeni e accompagnatore di reporter. Entrambi scomparsi nel nulla dal 6 giugno scorso. A ridurre al lumicino le speranze di ritrovarli in vita, è stata la scoperta di due corpi, con tutta probabilità i loro, e con tanto di effetti personali.
Ma sull’evento regna ancora confusione: se la moglie di Phillips, Alessandra Sampaio, ha riconosciuto il corpo del marito, le autorità brasiliane sostengono invece che quei cadaveri potrebbero essere di altre persone. Versione dei fatti, quest’ultima, sulla quale è lecito avere dei dubbi. Prima del triste ritrovamento a nulla erano valsi gli appelli nazionali e internazionali al presidente Bolsonaro, che ha parlato solo dopo due giorni dalla scomparsa. Con tutta probabilità, i due avrebbero percorso un affluente del rio Yavari, mentre stavano facendo ritorno nella località Atalaya del Norte attraversando il territorio indigeno Valle de Javari, abbastanza vicino alla frontiera con il Perù, tanto che era stato fatto appello alle stesse autorità peruviane affinché si unissero nella ricerca.
Si tratta di un territorio particolarmente pericoloso per la presenza di organizzazioni criminali dedite illegalmente alla caccia, alla pesca, all’attività estrattiva, al commercio di animali esotici, ma soprattutto all’onnipresente narcotraffico. Un duplice omicidio che purtroppo si unisce al drammatico bilancio che da decenni insanguina il Brasile. Da quelle parti chi si batte per l’ambiente e per altri diritti è praticamente un uomo morto.
Tanto per fare degli esempi, lo scorso gennaio è stata sterminata un’intera famiglia, i componenti della quale si chiamavano José Gomes, Márcia Nunes Lisboa e Joane, la figlia di 14 anni. I loro corpi sono stati ritrovati davanti a casa, freddati a colpi di arma da fuoco perché difendevano le tartarughe dall’ignobile traffico del quale sono vittime. Nel 2020, secondo quanto riporta l’ong Global Witness, in tutto il mondo sono stati uccisi 227 ambientalisti, in maggioranza proprio in Brasile. Un dato mai così alto dal 2012. Questi ultimi due omicidi riconfermano, se ce n’era bisogno, la drammaticità della situazione. Per il leader nativo Manoel Chorimpa, leader della comunità indigena Marubo, “Philips voleva intervistare esponenti di un gruppo di vigilanza attivo vista l’assoluta latitanza del governo nella lotta contro chi insanguina quei territori. Ma chi cerca di denunciare o documentare queste attività criminali senza alcuna protezione da parte dello Stato ha il destino segnato”. Sono “morti che camminano”, si dice da quelle parti. Sia pure con alti e bassi, l’attenzione nei confronti di quello che viene definito “il polmone del mondo” non è mai stata all’altezza della situazione. Dalla presidenza Lula (2003-2011), alla quale seguì quella di Dilma Rousseff (2011-2016), entrambi esponenti del Partito dei lavoratori e fautori di una politica sulla carta più attenta alla tutela della foresta, all’arrivo di Michel Temer (2016-2019), subentrato dopo l’impeachment che costrinse Dilma alle dimissioni, la situazione è lentamente peggiorata.
Per Hilton Silva do Nascimento, esponente del Centro de trabajo indigenista (Cti) del Brasile ed esperto delle popolazioni indigene “dal 2016 ebbe inizio un indebolimento delle istituzioni pubbliche, comprese quelle adibite alla tutela dell’ambiente come quelle installate nel Territorio Indígena Valle de Javarí che doveva essere protetto da attività criminali. Questo smantellamento – puntualizza do Nascimento – si è intensificato con la presidenza Bolsonaro, la quale ha ridotto al minimo i fondi necessari all’attività della Funai (Fondazione nazionale dell’indio), organismo governativo preposto all’elaborazione e all’implementazione delle politiche riguardanti la tutela dei popoli indigeni, molto spesso privato dei fondi necessari al pagamento del personale e del carburante necessario alle imbarcazioni che devono monitorare il territorio per contrastare queste attività illegali. Un vero e proprio boicottaggio – denuncia il dirigente del Cti – che ha reso molto più facile le invasioni del territorio”. Uno scenario che si accompagna a una crescita esponenziale della deforestazione se è vero, come denuncia il sito ambientalista brasiliano “Mapbiomas”, che nelcorso del 2021 sono stati cancellati oltre 13.200 chilometri quadrati, il tasso più elevato dal gennaio 2015. Più o meno la stessa superficie della Campania.
La speranza di una inversione di tendenza è legata a una eventuale e probabile vittoria alle presidenziali del 2 ottobre dell’ex capo dello Stato Lula, il cui passato però, in termini di politiche ambientali, non è esattamente dei più specchiati. Nell’ormai lontano 2005, Greenpeace lo aveva premiato ironicamente con la cosiddetta “Motosierra de Oro”, simbolo della deforestazione, contro la quale l’ex sindacalista non aveva fatto abbastanza. Un approccio dettato anche dalla cultura sviluppista e industrialista di chi proviene dal mondo sindacale e operaio. Ma ora c’è bisogno di una svolta netta e senza incertezze. Nell’ultima conferenza stampa, Lula si è soffermato molto sulla questione ambientale, e in particolare sulla situazione dell’Amazzonia. “Difendere la sovranità – ha detto – è difendere l’Amazzonia dalla politica di devastazione dell’attuale governo. Nei nostri governi abbiamo ridotto dell’80% la deforestazione, contribuendo a ridurre le emissioni di gas serra che causano il riscaldamento globale. Prendersi cura dell’ambiente – ha sottolineato – è soprattutto prendersi cura delle persone. Cercare la convivenza tra lo sviluppo economico e il rispetto della flora, della fauna e dell’essere umano. La transizione verso un nuovo modello di sviluppo sostenibile è una sfida globale”. Non sarà facile vincerla. Avrà contro la potente lobby agroalimentare, ben rappresentata al Congresso dalla “bancada ruralista”, la coalizione di grandi proprietari terrieri e allevatori eletti tra le fila della destra, capeggiata da Arthur Lira, leader del Congresso, e da Carla Zambelli, presidente della Commissione ambiente e sviluppo sostenibile.
Se alla tutela di un territorio così colpito Lula saprà coniugare, come fece nei suoi precedenti mandati, la lotta alla povertà e uno sviluppo economico reso possibile dalla grande quantità di risorse delle quali gode il Paese, la battaglia, sostenuta anche da un Occidente che non ha mai avuto simpatie per Bolsonaro, potrà essere vinta. Resta l’incognita dei rapporti con gli Stati Uniti. Sulla carta Biden sostiene Lula. Ma la Casa Bianca dovrà fare i conti con il progetto dell’ex presidente e di altri Paesi latinoamericani, vedi il Messico, di dare vita a un nuovo organismo regionale che sostituisca l’Osa(Organizzazione Stati americani), troppo dipendente, secondo loro, dagli Stati Uniti. Creando anche un soggetto subcontinentale con il quale la penetrazione russo-cinese dovrà fare i conti.