Sembrava di essere a teatro, mercoledì 8 giugno al parlamento europeo, dopo la clamorosa bocciatura in plenaria a Strasburgo di un testo legislativo del Green Deal, assolutamente cruciale per ricalibrarlo sul nuovo obiettivo della riduzione del 55% delle emissioni entro il 2030: urla e accuse reciproche fra i capigruppo politici, toni drammatici, gesti plateali, applausi e costernazione. Il testo bocciato è quello della complessa riforma del mercato dell’Unione dei permessi di emissione di CO2 (Ets, cioè Emission Trade System), ed è strettamente collegato ad altre due misure che accompagneranno questa riforma, che pure sono state per il momento bloccate in attesa di risolvere la situazione.
Le altre due misure riguardano la creazione di un “Fondo sociale per il clima”, volto a compensare proprio con una parte dei proventi dell’Ets i costi aggiuntivi della transizione energetica per le fasce più vulnerabili della popolazione, e l’istituzione di una carbon tax alle frontiere, o, per meglio dire, un sistema di “dazi climatici”, che verranno imposti alle importazioni di energia, cemento, acciaio, alluminio e fertilizzanti chimici provenienti da Paesi terzi in cui i produttori non sono sottoposti a obblighi e costi analoghi a quelli sostenuti dall’industria europea, a causa dei permessi di emissione.
Tutti e tre i testi sono stati rinviati alla commissione Ambiente del parlamento europeo per cercare di trovare un altro compromesso, che consenta poi un nuovo voto in plenaria: questa volta, si spera, con l’approvazione finale degli eurodeputati. Ma, contrariamente a quanto affermato in molti commenti a caldo, nei giorni successivi, non c’è un problema sistemico, non è andata in frantumi la “maggioranza Ursula” (popolari, socialisti e liberali di Renew, con l’appoggio dei verdi, che nel 2019 avevano votato la fiducia alla presidente della Commissione von der Leyen), e non sono in questione né la riforma dell’Ets, né il futuro dispositivo dei dazi climatici, né tanto meno i nuovi e più ambiziosi obiettivi del Green Deal.
Quello che è successo, in realtà, può essere ridotto (seppure semplificando molto) a uno scontro interno alla maggioranza Ursula solo su un punto: le date di inizio e fine del periodo di transizione, in cui saranno eliminate gradualmente le quote di emissioni oggi concesse a titolo gratuito ai comparti industriali europei a più alta intensità di consumo energetico: cemento, acciaio, alluminio e fertilizzanti chimici, gli stessi comparti (a eccezione dell’energia) che compaiono nella lista dei futuri dazi climatici.
Secondo la proposta originaria della Commissione europea, l’entrata in vigore progressiva del dispositivo di questi nuovi dazi climatici (designato dalla sigla inglese Cbam, che vuol dire “meccanismo di compensazione delle emissioni di carbonio alle frontiere”) dovrebbe iniziare nel 2025 per concludersi nel 2035; nello stesso periodo, dovrebbero essere eliminate gradualmente le quote di emissioni gratuite, a un ritmo di riduzione costante del 10% all’anno. Le quote gratuite passerebbero, dunque, dal 90% nel 2026, primo anno di riduzione, allo 0% nel 2035.
Le quote gratuite sono oggi una forma di salvaguardia contro la concorrenza sleale dai Paesi terzi senza Ets e contro il rischio di delocalizzazione fuori dall’Unione (carbon leakage) per queste industrie europee. È logico che questa compensazione venga eliminata, dal momento in cui sarà sostituita dai dazi climatici del Cbam, che hanno la stessa funzione di salvaguardia, e in più comportano un incentivo alla creazione di sistemi simili all’Ets anche nei Paesi terzi, se vogliono continuare a esportare nella Unione europea alle condizioni attuali.
Tuttavia, le organizzazioni industriali europee temono costi aggiuntivi notevoli a causa della fine del sistema dei permessi gratuiti, senza avere la garanzia che poi i dazi del Cbam funzionino davvero. A quanto riferiscono molti osservatori ed eurodeputati, negli ultimi mesi l’attività delle lobby industriali nel parlamento europeo si è notevolmente intensificata, come non succedeva da tempo, e ha trovato orecchie attente soprattutto nel Ppe e nella destra.
Nonostante questo, a metà maggio la commissione Ambiente del parlamento europeo ha assunto una posizione molto avanzata, in cui chiedeva di anticipare la data finale per l’eliminazione delle quote gratuite di ben cinque anni, al 2030. È noto, tuttavia, che la maggioranza in quella commissione, in cui siedono soprattutto eurodeputati molto impegnati sul fronte ambientale e spesso all’avanguardia in questo campo anche rispetto alle posizioni dei propri gruppi politici, difficilmente corrisponde poi in pieno alla maggioranza in plenaria.
Perciò, con l’obiettivo di ottenere l’appoggio del Ppe, i liberali di Renew e i socialisti e democratici (S&D) hanno concordato un compromesso meno ambizioso della posizione della commissione Ambiente, ma sempre nettamente più avanzato rispetto alla proposta originaria della Commissione europea: data di inizio della riduzione delle quote gratuite sempre nel 2026, ma ritmo di riduzione del 10% solo per i primi due anni, poi un’accelerazione, con un ritmo del 20% dal 2028 al 2030, la riduzione finale del 10% residuo nel 2031 e il raggiungimento dello 0% nel 2032.
Il Ppe però chiedeva di più, più tempo e meno oneri per l’industria. E ha tentato il colpo di mano: un accordo con i conservatori dell’Ecr (inclusi gli eurodeputati di Fratelli d’Italia) su una posizione che – era inteso – avrebbe ottenuto anche il sostegno dell’estrema destra sovranista (Lega compresa), sapendo poi che – anche in Renew e fra i socialisti – diversi dissidenti l’avrebbero appoggiata. Le date della fase transitoria, per l’eliminazione graduale delle quote gratuite, venivano ritardate di due anni, rispettivamente al 2028 e al 2034, rispetto alla proposta di compromesso Renew-S&D. Il ritmo di riduzione previsto era del 10%, per i primi tre anni, e del 17,5% dal 2031 al 2034. In più, la proposta del Ppe prevedeva anche di non applicare, per tutta la fase transitoria, la riduzione alle quote gratuite alla produzione europea destinata all’esportazione in Paesi senza sistemi simili all’Ets.
Durante il voto in plenaria, la posizione della commissione Ambiente (fine quote gratuite al 2030) è stata subito bocciata, come previsto. Ma poi, contro le aspettative dei socialisti e di Renew, è stato bocciato anche, per soli undici voti, l’emendamento di compromesso sulla fine delle quote gratuite nel 2032: 303 favorevoli, 314 contrari, 20 astenuti.
Ad affossare questo ragionevole emendamento di compromesso sono stati soprattutto i franchi tiratori interni ai due gruppi, ben diciotto per Renew (fra cui gli italiani Calenda e Danti) e quindici per S&D. In più, altri sei liberali e sei socialisti (fra cui i democratici italiani De Castro, Ferrandino, Gualmini e Toia) si sono astenuti. Da notare che, a favore del compromesso, hanno votato invece (e non era scontato) i verdi, compattissimi, e l’estrema sinistra (con qualche dissidente, cinque contrari e quattro astenuti), più dodici dissidenti popolari.
La plenaria si è espressa, quindi, sugli emendamenti sostenuti dal Ppe e dai conservatori (fine quote gratuite nel 2034), raggruppati in quattro voti distinti (uno degli emendamenti era diviso in tre parti): sono passati tutti con una ventina di voti di scarto, e il più importante con 322 favorevoli, 302 contrari, 19 astenuti. A favore, naturalmente, tutto il Ppe (salvo tre dissidenti), tutti i conservatori (salvo tre astenuti) e l’intera estrema destra (ma con due contrari e nove astenuti). L’emendamento è stato votato, inoltre, da diciannove socialisti (tra cui gli italiani De Castro e Ferrandino), venti liberali (tra cui gli italiani Calenda e Danti), e persino un eurodeputato della sinistra e sei italiani del Movimento 5 Stelle (per errore, hanno riferito fonti della delegazione a Bruxelles).
A questo punto, i socialisti hanno chiesto tre minuti per consultazioni, molto concitate, in cui hanno deciso di cambiare strategia, d’accordo con i verdi e la sinistra: i tre gruppi, al voto finale, si sono espressi contro l’intera risoluzione legislativa, così come si sapeva che avrebbe fatto l’estrema destra, e come hanno fatto anche i conservatori, nonostante il successo degli emendamenti che avevano appoggiato. Con ben 340 voti contrari, e solo 265 a favore (sostanzialmente tutto il Ppe e tutto Renew, con in più sedici socialisti), il testo è stato clamorosamente bocciato. Gli astenuti sono stati 34, tra cui dieci eurodeputati del Pd e sette dei 5 Stelle.
Subito dopo il voto, nell’aula è accaduto di tutto, con un espressionismo da cinema muto nel linguaggio dei volti e dei corpi: la costernazione del relatore del Ppe, il tedesco Peter Liese, un veterano espertissimo dell’europarlamento, chiaramente preso di sorpresa; il capogruppo di Renew, Stéphane Séjourné, che indicava con le due mani la destra e la sinistra dell’aula, rivolto alla capogruppo socialista Iratxe García (ovvero: avete votato insieme con i sovranisti antieuropei!); Iratxe García che, rivolta al capogruppo popolare Manfred Weber e a Liese univa in parallelo i due indici e poi apriva le braccia (tradotto: avete voluto fare gli emendamenti con la destra? Ecco il risultato). Il più freddo e lucido, in questo marasma, è stato il presidente della commissione Ambiente, Pascal Canfin (francese di Renew) che è andato subito da Liese per suggerirgli una via d’uscita, mentre la presidente dell’Assemblea, Roberta Metsola, cercava di far tornare la calma.
La soluzione che ha messo d’accordo e rimesso insieme la maggioranza Ursula è stata quella di chiedere alla plenaria il rinvio in commissione Ambiente del testo bocciato, come aveva sicuramente suggerito Canfin a Liese. Il relatore, dopo avere accusato i socialisti del disastro, ha presentato la richiesta formale, accorata (“per favore, non uccidete la riforma dell’Ets”) e la plenaria ha approvato con ben 495 voti a favore, 120 contrari e 16 astenuti.
Ma non è finita qui: il capogruppo dei verdi, Philippe Lamberts, ha ammonito i popolari: “Se volete delle maggioranze europeiste solide, delle maggioranze a favore del clima solide, bisogna costruirle, non si improvvisano. Noi siamo pronti a lavorare con voi per arrivarci”. Weber (Ppe) ha replicato: “Maggioranza europeista non significa automaticamente la maggioranza che vogliono i socialisti e i verdi. Voi avete votato con l’estrema destra, non cambiate la storia”. Iratxe García ha ribattuto: “Non si può chiedere il voto all’estrema destra per abbassare le ambizioni e poi chiedere a noi di votare a favore. Cerchiamo di essere coerenti”. La capogruppo della sinistra, Manon Aubry, ha rincarato la dose: “Stiamo assistendo a un esercizio di totale ipocrisia da parte della destra. Signori del Ppe, chi ha votato con l’estrema destra per dare potere alle lobby per ritardare la fine delle quote gratuite?”.
Comunque è evidente che ora si farà di tutto per trovare un testo che metta d’accordo il Ppe e gli altri due gruppi maggiori, e possibilmente almeno i verdi, se non anche la sinistra. Come ha sottolineato Canfin, in una breve conferenza stampa dopo il voto, c’è solo un punto controverso, ed è quello delle date di inizio e fine dell’eliminazione progressiva delle quote gratuite. “Ora avremo il rinvio in commissione Ambiente, poi torneremo in plenaria non appena avremo un compromesso stabile; stabile significa che quando andiamo in plenaria abbiamo la maggioranza. Questo compromesso può essere fatto subito, in due settimane, oppure a luglio, non lo so ancora: adesso cominceremo a discuterne”, ha detto Canfin. Intanto – ha aggiunto – è già chiaro che “l’inizio dell’eliminazione graduale delle quote gratuite sarà in ogni caso nel 2026 o al più tardi nel 2028”. Per il resto, “tutti gli emendamenti provenienti da membri del Ppe che volevano diminuire il livello di ambizione sono stati bocciati. Dunque alla fine c’è solo un voto chiave, solo una questione chiave. E faremo – ha concluso – tutto ciò che sarà necessario (whatever it takes, ndr) per trovare il compromesso migliore possibile”.