La prima cosa che dobbiamo avere presente, districandoci in questa putrida matassa, è che in Italia non è accaduto nulla che possa aver destato l’interesse dei nostri Servizi che hanno il compito di tutelare la sicurezza della Repubblica. Nessun fatto reale giustifica la “camurria” dei giorni precedenti, nata quando un giornale – il più importante dei giornali italiani – ha sparato in prima pagina le foto, in stile poliziesco, dei presunti filoputiniani italiani, ammonendo con le seguenti parole:
La rete è complessa e variegata. Coinvolge i social network, le tv, i giornali e ha come obiettivo principale il condizionamento dell’opinione pubblica. Si attiva nei momenti chiave del conflitto, attaccando i politici schierati con Kiev e sostenendo quelli che portano avanti le tesi favorevoli alla Russia. La rete filo-Putin è ormai una realtà ben radicata in Italia, che allarma gli apparati di sicurezza perché tenta di orientare, o peggio boicottare, le scelte del governo. E lo fa potendo contare su parlamentari e manager, lobbisti e giornalisti.
Caspita. Roba grossa. Da dove vengono i nomi dei presunti “putiniani d’Italia” pubblicati domenica scorsa dal “Corriere”? Tra loro, c’è anche il noto Manlio Dinucci, che da anni sul “manifesto” e altrove ci informa sull’assoluta pericolosità dei sistemi d’arma e sugli interessi dell’apparato industriale-militare. Si tratta di professionisti o militanti che non rappresentano, loro, né un pericolo né un avamposto putiniano in Italia.
Stanco delle polemiche suscitate dall’improvvido articolo, il sottosegretario con delega ai Servizi, Franco Gabrielli, funzionario rispettabile, fin qui, esce allo scoperto: prima con una dichiarazione che non fa centro – non se lo fila nessuno –, poi passa all’artiglieria pesante: una conferenza stampa alle tre del pomeriggio, in collegamento con la sala polifunzionale; è positivo al Covid, ma vuole placare il polverone e difendere il lavoro della sua comunità di spie. E rassicura (sic!): noi non facciamo dossier, tranquilli, abbiamo compilato dall’inizio del conflitto in Ucraina quattro bollettini, quello in questione è di giugno. Tantomeno “investighiamo sulle opinioni”, si monitora solo la “circolazione di fake news”, anche se nel bollettino non ne è indicata nemmeno una. E poi – sorpresa – Gabrielli mostra il documento di sette pagine intitolate “Speciale disinformazione nel conflitto russo-ucraino, periodo 15 aprile-15 maggio”. Ormai stranoto, lì non ci sono i nomi di Petrocelli, senatore, di Alessandro Orsini, di Manlio Dinucci, di Laura Ruggeri, di Maurizio Vezzosi, di Claudio Giordanengo e di Maria Dubovikova, indicati nell’articolo del “Corriere”: si citano solo l’economista e pubblicista Alberto Fazolo e il freelance Giorgio Bianchi.
Il “Corriere”, tuttavia, il giorno dopo, conferma di aver preso dai precedenti report i sei nomi di cittadini italiani non contenuti nel testo desecretato, ma pubblicati con tanto di foto “segnaletica” sul giornale del 5 giugno:
I nomi contenuti nell’ultimo bollettino sono soltanto alcuni di quelli emersi nel corso di questi mesi durante l’attività di monitoraggio, ricognizione dei contenuti della rete internet, dei social network, delle tv e di tutti quei canali dove si pensa possano essere diffuse false notizie ai fini di propaganda,
scrivono Monica Guerzoni e Fiorenza Sarzanini nell’articolo successivo, offrendo una spiegazione che arroventa ancora di più il caso. Perché Franco Gabrielli non ha reso pubblici gli altri dossier, tutti inviati anche allo staff del premier Mario Draghi? E a quale titolo in quei dossier compariva anche il nome di un parlamentare, Vito Petrocelli, ex presidente della commissione Esteri del Senato?
Fin qui, siamo di fronte a due grosse questioni democratiche che non hanno un ordine di importanza. Innanzitutto la stampa: non corre più dietro ai dossier dei Servizi per denunciarli, come si pretende da una informazione libera, ma se ne serve per pubblicarli e accendere una caccia alle streghe, perché di questo si tratta. Poi preoccupano questi nostri 007, che dai loro uffici con aria condizionata sfogliano le riviste e si appuntano i nomi di tutti coloro che esercitano un pensiero critico o anche di coloro che, esercitando un pensiero non necessariamente di altissima qualità, mostrano perplessità verso le linee dominanti del governo di turno. L’operazione si è auto-smascherata, ma davvero questo fa la nostra intelligence in un mondo che esplode?
Il terzo attore della saga dei filopunitiani d’Italia è il Copasir, il Comitato per la sicurezza, guidato spericolatamente da Adolfo Urso, meloniano di ferro e, con la sua capa, tutto proteso verso l’accreditamento, suo e dei suoi sodali, negli ambienti atlantici. L’articolo, da cui tutto è nato e che abbiamo in parte citato all’inizio, prosegue così:
L’indagine avviata dal Copasir è entrata nella fase cruciale. Il materiale raccolto dall’intelligence individua i canali usati per la propaganda, ricostruisce i contatti tra gruppi e singoli personaggi e soprattutto la scelta dei momenti in cui la rete, usando più piattaforme sociali insieme – da quelle più conosciute come Telegram, Twitter, Facebook, Tik Tok, Vk, Instagram – a quelle di nicchia come Gab, Parler, Bitchute, ExitNews – fa partire la controinformazione.
Sembrerebbe che la fonte delle giornaliste sia proprio il Copasir di Urso, a cui Gabrielli conferma di aver mandato il report, lo stesso pubblicato dal “Corriere”. “Il report è lo stesso che avete inoltrato al Copasir? Assolutamente sì, è stato editato e protocollato il 3 giugno, il Copasir lo ha ricevuto”, dice nella sua videoconferenza stampa. Naturalmente, Urso dice di aver ricevuto il documento il giorno successivo all’uscita sul giornale, mettendo a tacere chi volesse considerarlo una fonte.
In sintesi: abbiamo una intelligence che gioca con i nomi di persone che non mettono a repentaglio la nostra sicurezza; il “Corriere”, giornale nazionale, che si inebria pubblicando le loro foto come se non si trattasse di un giornale ma di una velina di una questura, che non sa bene come muoversi nel proprio territorio; infine, un Comitato parlamentare di controllo che riceve dossieraggi, li studia con passione, forse li fa girare, ma non ritiene di dover intervenire per svolgere il proprio ruolo di vigilanza e stoppare l’indegno ingranaggio.
Ebbene sì, abbiamo un problema. E non sono i putiniani d’Italia.