Si è concluso com’era prevedibile, il nono vertice dell’Organizzazione degli Stati americani, ospitato nella sterminata metropoli californiana: con qualche accordo ben delimitato e molte, generiche, buone intenzioni. Sovrabbondanza di diplomazia e assenza di politiche attive. Unanime, solo la consapevolezza che poteva andare peggio. Da ciò il padrone di casa, Joe Biden, ha tratto ragione di rallegrarsene. A loro volta, i capi di Stato e di governo latinoamericani presenti hanno espresso più critiche che consensi, riuscendo tuttavia a preservarsi esili spazi diplomatici senza perdere la faccia. E il vertice avrà un paio di annessi, politicamente bilanciati: il populista di sinistra argentino Alberto Fernández e il populista di destra brasiliano Jair Bolsonaro saranno presto invitati formalmente a Washington.
Il capo di Stato messicano, Andrés Manuel López Obrador, l’interlocutore di Biden con maggior peso per l’insieme e l’entità dei problemi condivisi (è anche il suo primo partner commerciale), ha mantenuto fermo il preannunciato rifiuto a partecipare di persona. Era la sua protesta contro l’esclusione di Cuba, Venezuela e Nicaragua dalla riunione, ribadita quest’anno da Washington. A rappresentarlo, è andato il suo cancelliere, che al pari di quasi tutti gli altri intervenuti ha riaffermato il diritto inalienabile di tutti gli Stati del continente a poter esprimere direttamente il proprio punto di vista sulle questioni comuni. Nondimeno, il Nicaragua è stato nominato il meno possibile, evidenziando le molteplici contrarietà, tra gli stessi latinoamericani, nei confronti della politica repressiva del suo presidente, Daniel Ortega.
Biden e il Dipartimento di Stato, con Antony Blinken alla testa, non ne hanno approfittato – né prima, nella fase preparatoria, né durante i tre giorni d’incontri e dibattiti – per tentare di comprometterli ulteriormente sulla via di graduali, reciproci riconoscimenti di diritto e di fatto. Confermando, così, di non sentirsi particolarmente impegnati a dispiegare, o a predisporre, una strategia capace di diluire progressivamente le questioni che da decenni inquinano i rapporti di Washington con gli Stati del subcontinente meridionale (a cominciare dallo storico blocco economico contro Cuba, politicamente sterile). Il solenne schieramento presentato a Los Angeles, che includeva anche la vicepresidente Kamala Harris, sembrava destinato, piuttosto, a relativizzare assenze e critiche latinoamericane, argomentate e insistenti.
La preoccupazione, che ha dominato il presidente statunitense anche a Los Angeles, è stata quella di sottrarsi, il più possibile, alle critiche sia della destra del suo stesso partito sia dei repubblicani moderati. Poiché, sebbene ridotti a un isolato plotone, questi ultimi occupano ancora posti decisivi in alcune commissioni parlamentari, e possono pertanto risultare determinanti per l’attività legislativa del Congresso. Cosicché – di fronte a un Bolsonaro deciso a disertare la riunione, pur di ribadire la sua fedeltà a Donald Trump – gli ha concesso di riceverlo ufficialmente alla Casa Bianca, in cambio della sua presenza. Di conseguenza, si è trovato a dovere fare altrettanto per evitare l’assenza dell’argentino Alberto Fernández, contrariato soprattutto dalle esclusioni di Cuba e del Venezuela. Ma in ciascuno dei momenti protocollari del vertice, ha voluto accanto a sé Ivan Duque, il discusso presidente conservatore colombiano, ormai a fine mandato.
Già denunciata dal capo di Stato messicano come la conferma delle irrimediabili insufficienze della Organizzazione degli Stati americani (la cui totale assenza nella pandemia è stata definita imperdonabile), questa politica del bilancino non voleva né poteva passare inosservata. Solo evitare un rovescio diplomatico e guadagnare tempo. Corrisponde, infatti, ai contenuti reali dell’unico documento significativo del vertice, quello sulle migrazioni, che a malapena ne corregge taluni aspetti amministrativi minori, lasciando tale e quale la tragica situazione delle centinaia di migliaia di persone bloccate alla frontiera tra il Messico e gli Stati Uniti. Sia pure con toni diversi, l’argentino Fernández, il cileno Boric e il peruviano Castillo, hanno espresso la volontà comune ai due terzi, almeno, dei trentacinque Paesi dell’Organizzazione degli Stati americani favorevole a una rifondazione delle relazioni intercontinentali, attraverso nuovi criteri e nuove istituzioni. C’è da credere che al Dipartimento di Stato nessuno sia stato colto di sorpresa.