Un filo rosso unisce le guerre europee dai Balcani all’Ucraina, dopo la caduta del Muro di Berlino. Si tratta di guerre nella cui interpretazione sono predominanti le categorie del nazionalismo etnico o dello “scontro di civiltà”, a scapito di quelle riguardanti sia il modello sociale sia la costruzione di nuove relazioni internazionali in un quadro multipolare. Da più di trent’anni, l’Europa trascina se stessa in una sorta di stanca sopravvivenza, nella quale nessuna famiglia politica ha davvero fatto i conti con la fine del modello sociale basato sul compromesso socialdemocratico tra capitale e lavoro, tipico dei “trenta gloriosi”. Nessuno ha davvero messo impegno e passione, nella riflessione, per giungere a prospettare un nuovo modello sociale egemonico. Non deve sorprendere allora che – di fronte alla nuova crisi della liberaldemocrazia, esplosa negli ultimi anni in tutta Europa (e anche negli Stati Uniti, se pensiamo a Trump), a causa dell’incapacità di tenere assieme libertà e sicurezza sociale – nazionalismo, sovranismo, e anche fascismo vero e proprio, siano tornati in campo come soluzione alla crisi, coinvolgendo pezzi consistenti di società, che hanno rispolverato la retorica antipolitica, anti-casta, antiplutocratica e, ovviamente, antisemita. Mutatis mutandis, il fascismo è tornato in scena a Est come a Ovest, a Roma e a Parigi, come a Budapest o a Varsavia.
Se pensiamo alle guerre nella ex Jugoslavia, negli anni Novanta, la stragrande maggioranza delle opinioni pubbliche occidentali – partiti di sinistra tradizionali compresi – visse quel conflitto come una lotta tra la democrazia e il nazionalismo, tra l’Occidente con i suoi valori e l’Oriente con i suoi disvalori di doppiezza e violenza, tra la resistenza democratica di un popolo – i bosniaci (e prima i croati, che però furono poi feroci assedianti, a loro volta, della città di Mostar sotto insegne clerico-fasciste non proprio democratiche) – e l’offensiva “fasciocomunista” (si può chiamare così perché alcuni la definirono fascista, altri comunista) serba.
Sul terreno le cose apparvero molto diverse. La dissoluzione della Jugoslavia, infatti, aveva generato tre grandi partiti etnici che condividevano gli stessi valori: etnonazionalismo, autoritarismo e culto del capo carismatico. Parliamo del partito croato guidato da Franjo Tuđman; di quello musulmano di Alija Izetbegović; e di quello serbo di Slobodan Milošević. Tutti e tre i partiti guadagnarono il consenso della cittadinanza grazie al nazionalismo, alla propaganda contro il nemico dell’etnia opposta e al culto del leader autoritario, che avrebbe salvato il popolo dall’infedele musulmano, cattolico o ortodosso. Le tre dirigenze nazionaliste utilizzarono la guerra per acuire l’etnonazionalismo, la paura e il conseguente culto del leader autoritario, per un’operazione di State building, cioè di creazione di un nuovo tipo di statualità non democratica, su base etnica, che potesse sostenere quel tipo di economia grigia e illegale tipico di tutti gli Stati che si stavano dissolvendo con la fine della guerra fredda: traffico di esseri umani, di droga, di armi, di scorie radioattive e chimiche ecc. Quel tipo di Stato venne definito, in letteratura, con la categoria del neofeudalesimo, dal momento che il controllo di quei territori era affidato a varie bande paramilitari, in contatto diretto con il capo di Stato autoritario e nazionalista, che sul territorio garantivano l’ordine e la fedeltà al capo, e anche una sorta di Stato sociale basato su quella medesima fedeltà, le cui risorse venivano dai suddetti traffici gestiti dalle stesse bande.
La guerra fu così uno straordinario strumento per la creazione di questo nuovo tipo di Stati. Favorì infatti la nascita di leadership non democratiche su base etnica, diede potere ai tagliagole delle bande paramilitari, issò ai ruoli apicali di governo i presentabili dei suddetti tagliagole, o miserabili prestanome distintisi nella fedeltà al capo; permise, grazie all’instabilità tipica delle guerre, la nascita di forme di economia illegale, mafiosa, grigia, parallela ecc.
La guerra, dopo più di vent’anni, si ripresenta sul nostro continente: e le uniche categorie utilizzate dai governi e dalle famiglie politiche sono quelle del nazionalismo, da un lato, e dell’affermazione generica dei valori democratici, dall’altro, senza alcun riferimento alla grande questione sociale che, da almeno tre decenni, sconvolge l’Europa a causa dell’avvento dell’egemonia neoliberale. Nel momento della dissoluzione dell’impero sovietico, nessun governo, nessun partito europeo – né l’Internazionale socialista né il Partito popolare europeo, e nemmeno i vari sindacati – denunciò il fatto che la Russia e i suoi satelliti fossero stati spolpati da quelli che poi sarebbero stati chiamati oligarchi, e che quel processo avrebbe segnato in modo drammatico le società di quei Paesi, sia politicamente sia culturalmente. Anzi, i più pensarono che la riaffermazione degli spiriti animali del capitale sarebbe stata, tutto sommato, un bene per riavviare la vita civile e politica di paesi appesantiti da troppo Stato e troppa burocrazia.
Insomma, a furia di considerare le guerre scoppiate in Europa come conflitti tra la civiltà e la barbarie, tra l’Occidente democratico e l’Oriente bizantino e bifido, tra l’intraprendenza economica e la scarsa voglia di lavorare di popoli da risvegliare e rieducare, l’Europa ha perduto la capacità di analizzare ciò che accade sul proprio territorio con le categorie socio-economiche e politiche, in cui per “politica” non si intendano appunto le “faglie di civiltà”, ma la capacità di aggregare interessi e passioni democratiche attorno a un progetto, con attori sociali e masse a cui riferirsi. Per esempio, finita la guerra nella ex Jugoslavia, le varie potenze occidentali intervennero per impiantare regimi strettamente neoliberisti: fine di qualsiasi proprietà statale, privatizzazione dello Stato sociale, della sanità e, in alcuni casi, anche delle istituzioni scolastiche e di formazione in genere. Nessuna famiglia politica di sinistra mosse un dito per opporsi; nessun sindacato europeo diede il proprio appoggio ai sindacati bosniaci, croati o serbi che si opponevano alla distruzione delle garanzie sociali e di un minimo di civiltà del lavoro. In fondo, la lotta era fra il bene e il male, fra il bianco e il nero: poco importava la dissoluzione delle protezioni sociali.
Il nostro è un tempo senza masse organizzate e desiderose di intervenire in prima persona nella battaglia politica. Questo è purtroppo il risultato dell’egemonia liberale. E forse non esistono più nemmeno vere e proprie famiglie politiche europee, vista l’inconsistenza dell’Internazionale socialista e del Partito popolare europeo. Spetta comunque alla buona volontà di gruppi, associazioni, dirigenti e intellettualità dispersi la decisione di uno scatto politico-culturale. La passione per l’interventismo democratico e la retorica sulla resistenza dei popoli deve lasciare il posto al respiro ampio della riflessione sul modello sociale, sui consumi, sul rapporto tra uomo e natura e sul limite come idea-forza per salvare il pianeta dalla catastrofe.
Più di trent’anni fa, Pietro Ingrao ebbe a dire: “Il tema dell’orario di lavoro è decisivo per una saldatura, un incontro con le organizzazioni dei lavoratori d’Europa. Qui è la vera sfida. Qui l’attualità di un punto di vista critico, di una strategia antagonista alle nuove pervasive forme di dominio che sta assumendo la modernizzazione capitalistica degli anni Ottanta. O noi riusciamo a costruire – nella nuova dimensione internazionale – una convergenza strategica per un altro tipo di sviluppo, in cui contino l’autonomia, la compartecipazione, la creatività e il senso della vita, oppure raccatteremo briciole”. Ecco, partire dalla consapevolezza che effettivamente abbiamo raccolto solo briciole sarebbe già un grande passo avanti per le forze democratiche e di sinistra del nostro continente.