La interessante conversazione di Michele Mezza con Aldo Bonomi, presente sul nostro sito, pone non pochi problemi politici e teorici. Non intendendo restituire l’andamento complessivo di una lunga ed erratica chiacchierata, ricca di stimoli; mi limiterò a riflettere su alcuni dei molti temi toccati, che spesso si intrecciano e sovrappongono.
La prima questione mi pare quella del lavoro e delle sue metamorfosi. Che il mondo contemporaneo sia il teatro in cui si celebra la tendenziale scomparsa delle forme del lavoro tradizionale, è un dato di fatto. Così come mi pare assodato che siamo immersi in una transizione tra un concetto di lavoro del passato, di cui ha scritto l’epitaffio Harry Braverman in Lavoro e capitale monopolistico, e qualcosa di profondamente diverso: un passaggio complesso e di lunga durata verso una direzione ignota, di cui il brave new world del lavoro, in cui ci troviamo oggi, rappresenta probabilmente solo una fase.
Un lavoro che si è decomposto, come viene detto più volte, frammentato, e in cui tuttavia emergerebbero non solo un aumento dello sfruttamento, la precarizzazione e la mancanza di sicurezze, ma anche tratti di “esodo” più o meno di massa e più o meno volontario, una silenziosa defezione (collettiva?) dalle gabbie del lavoro salariato e del posto fisso, come peraltro aveva già da tempo sottolineato la tradizione operaista. Una soggettività che si sottrarrebbe, dunque, al “disciplinamento” delle attività lavorative tipico del mondo fordista, alla ricerca di un “altrove”, che si situa forse al di là della società dei consumi e oltre l’impresa, e su cui insiste Bonomi.
Nel frattempo, però, mentre la ricerca di questo altrove non assume per il momento forme politiche individuabili, se non episodiche, rimangono tutte le pesantissime servitù della condizione precaria: sganciamento dalle prestazioni welfariane, contratti “individuali”, mancanza di garanzie e supersfruttamento. In poche parole, tutto il peso del nodo “antropologico” del precariato: vite legate all’alea, al caso, e le generazioni sacrificate di cui è stata la disperata voce Mark Fisher.
È anche vero, com’è stato detto, che la pandemia ha modificato le relazioni di lavoro, come ha cambiato le relazioni politiche, ma non certo in meglio, ribadendo l’importanza del controllo e del comando, anche a distanza, e riaffermando il ruolo e il potere degli Stati, da tempo messo in dubbio.
Il “ritorno” dello Stato ci conduce direttamente alla seconda questione: il rapporto tra i flussi e i luoghi.
Già nei primi studi, che esploravano le conseguenze della globalizzazione sulle città, era stato intuito come si profilasse una situazione in cui c’era una sempre maggiore difficoltà a controllare i flussi globali di merci, capitali e persone da parte di istituzioni solamente locali. Ma si è poi fatta strada, lentamente, l’idea che fosse importante il modo in cui la dimensione locale veniva gestita. Non c’era solo passività, anche se era indubbia la potenza dei flussi, questo però non escludeva la possibilità di una costruzione sociale e politica dei territori come attori politici, come protagonisti e non come comprimari. Perciò – quando si parla, nella conversazione, di Milano e della sua transizione – non ci si può lasciare unicamente trasportare dall’entusiasmo per la velocità di quanto sta accadendo, magari rimanendo abbagliati dalla potenza di fuoco economica che si sta scatenando sulla città, senza vedere l’incapacità di gestione politica, l’assenza dell’amministrazione, la devastazione sociale e lo svuotamento del centro che la ipergentrification in corso e il trionfo dell’immobiliarismo speculativo stanno provocando.
Non è dappertutto così: città come Monaco di Baviera, per esempio, hanno amministrazioni che da decenni trattano con le corporations e danno ordine agli investimenti che piovono sulla città, scegliendo persino in quali zone dell’area urbana devono essere indirizzati. Da noi, ormai, la rinuncia a pensare e a progettare la città ha assunto invece, da tempo, gli aspetti modestissimi della “urbanistica contrattata”, per non parlare poi della miseria degli interventi occasionali e puntiformi chiamati “agopuntura urbana”. Ma così facendo si rischia di lasciare le città completamente in mano agli immobiliaristi, cancellando ogni aspirazione a politiche pubbliche sensate.
Terza questione, quella della rendita: nella fattispecie balneari, catasto. Resto del partito di quelli che pensano che la rendita sia arretratezza. Non vedo alcun “esodo” nella rendita dei balneari, né la potenziale contrapposizione di un “capitalismo molecolare” all’eventuale ingresso di “multinazionali delle vacanze” come evocato, sia pure in maniera paradossale, da Mezza. Va ricordato che l’Italia attuale è un Paese di rentiers, che campa sugli stock di rendita, non certo sui flussi di capitali, con una concentrazione della ricchezza che è andata crescendo costantemente nell’ultimo decennio, e che è stata accelerata dalla pandemia.
Forse vale la pena di accennare qualche cifra: a partire dalla metà degli anni Novanta, lo 0,1% più ricco del paese ha visto raddoppiare la sua ricchezza, mentre il 50% più povero ha perso lo 80%. Una situazione più “americana” che europea quanto a ripartizione delle ricchezze. Complicata ulteriormente dal fatto che il 44% dei contribuenti dichiara reddito zero, o addirittura negativo, e il 58% degli italiani versa il 9% dell’Irpef. In pratica, oltre la metà del Paese vive a carico di qualcuno.
Dagli anni Ottanta, la quota delle rendite immobiliari, a causa dell’aumento del prezzo relativo dei servizi immobiliari, è costantemente cresciuta, arrivando al 13% del valore aggiunto al costo dei fattori. Se si scompone la quota del capitale in una quota dei profitti e una quota delle rendite, quest’ultima è salita da circa il 20% dei redditi che toccava negli anni Settanta al 37% raggiunto negli ultimi anni. Appare così il ruolo chiave del settore immobiliare non solo per la distribuzione della ricchezza, ma anche per la distribuzione primaria del reddito. E allora come non sostenere la riforma del catasto e delle concessioni balneari, anche in una ottica semplicemente redistributiva?
Un Paese immobile, in cui un vasto arco parlamentare difende la rendita, in cui lo sfruttamento spietato del lavoro povero non si ferma davanti al moltiplicarsi degli incidenti sul lavoro, in cui sulla schiena delle generazioni future è stato depositato un fardello pesantissimo di debito, pur di non cambiare nulla. Presto, però, sotto l’incalzare della ulteriore accelerazione dei processi di polarizzazione sociale derivanti dalle conseguenze economiche del conflitto russo-ucraino, molti di questi nodi potrebbero venire al pettine.
La elegante metafora della sabbia – “sabbia dei litorali, sabbia dei lavori”, che ricorre e attraversa tutta la conversazione, a indicare una condizione pulviscolare della soggettività – rischia allora di apparire un artificio retorico, destinato a venire cancellato dalle onde della marea che già si approssima.