Stando a Jacques Delors (ex ministro dei tempi di Mitterrand ed ex presidente della Commissione europea), la socialdemocrazia consiste in un doppio compromesso: tra capitale e lavoro, tra Stato e mercato. Questo è indubbiamente vero riguardo al passato. Ma già nel Novecento si sarebbe trattato di capire dove si sarebbe collocata la linea del compromesso: se in misura maggiore o minore a favore dell’uno o dell’altro polo. E proprio Mitterrand aveva parlato, pur senza poi realizzarla neppure in parte, di una “rottura con il capitalismo”. D’altronde, il concetto di socialismo – termine più ampio e generale di quello di socialdemocrazia –, ha conosciuto, nella seconda metà del secolo scorso, declinazioni differenti, senza che ciò sia mai sembrato uno scandalo. Basti pensare al socialdemocratico svedese Olof Palme, che sosteneva (addirittura) la necessità di coniugare l’utopia con il realismo.
Ora, il Partito socialista francese – che, negli ultimi anni, ha visto prima una fuga di elettori alla sua destra in direzione di Macron, e poi una fuga di elettori alla sua sinistra verso Mélenchon – ha sottoscritto un patto con quest’ultimo, nelle prossime elezioni per il rinnovo del parlamento, insieme con i comunisti e gli ecologisti, per fare della gauche la principale forza di opposizione o, ancora meglio, per strappare la maggioranza al partito presidenziale. Tutto ciò, oltre a essere inscritto nella logica delle cose, è l’unica decisione che potrebbe rendere il Partito socialista francese, un domani, di nuovo competitivo nel confronto a sinistra, egemonizzato al momento dalla formazione di Mélenchon, ex socialista ed ex trotzkista, che, conducendo una campagna molto personale, è riuscito al primo turno delle presidenziali a catalizzare il 22% dei consensi surclassando gli altri candidati progressisti.
È riuscito a Mélenchon, grazie anche al peculiare sistema politico francese, ciò che non è riuscito a Podemos in Spagna: di soppiantare il vecchio partito socialista nella leadership a sinistra. In Spagna, infatti, proprio una dirigenza coerente e orientata a sinistra, come quella del Psoe di Sánchez, ha saputo resistere alla sfida di ciò che, con una certa approssimazione, si può chiamare il “populismo di sinistra”. Ma c’è da dire che – passando per dissidi interni, però anche attraverso una unificazione con il residuale Partito comunista – Podemos alla fin fine ha condotto un dialogo, sia pure con momenti di scontro, con il Psoe: tant’è che adesso governano insieme.
Invece la francese “Nuova unione popolare ecologica e sociale”, che sulla carta potrebbe arrivare a governare “in coabitazione” con la presidenza di Macron, ha più le sembianze di un’alleanza tattica elettorale che quelle di una vera e propria coalizione di governo. Serve soprattutto a non disperdere i voti nell’impervio sistema francese a doppio turno.
Il punto più controverso (che riguarda del resto anche gli ecologisti) è quello dell’atteggiamento da tenere nei confronti di eventuali direttive europee in contrasto con il programma unitario della gauche. Queste direttive dovrebbero essere oggetto di disobbedienza, o almeno sospese in vista di una battaglia per la loro modifica, stando al documento programmatico sottoscritto dalle forze di sinistra: con i socialisti (e gli ecologisti) che si riservano di adottare semmai il secondo atteggiamento, il quale rimarca la differenza tra una posizione euroscettica e una di europeismo critico.
Ciò detto, va da sé che oggi – a parte il caso delle socialdemocrazie nordiche, tornate in auge su posizioni più “di destra” e magari apertamente ostili all’immigrazione, come in Danimarca – in Paesi come la Spagna e, fino a poco tempo fa, il Portogallo, sono le alleanze tra forze più moderate e altre radicali, che possono risultare vincenti (il caso dell’Italia è del tutto sui generis, non esistendo in questo Paese una sinistra politica degna del nome, ed essendo il Pd un partito sostanzialmente di centro).
È la stessa composizione molto eterogenea, dal punto di vista degli interessi sociali da rappresentare, a richiedere una strategia di “fronte ampio” – per utilizzare un termine adoperato di solito riguardo all’America latina. Ci sono infatti i lavoratori precari, spesso intellettuali, e gli operai e i tecnici della vecchia fabbrica fordista; ci sono quelli che percepiscono pensioni e quelli che nemmeno riescono a intravedere un futuro pensionistico; ci sono gli ecologisti e coloro che temono di dover pagare la necessaria transizione ecologica (si ricordi che i “gilet gialli” vennero fuori proprio dalla protesta contro un’imposta “ecologica” sui carburanti); ci sono i movimenti per i diritti civili Lgbtq, le femministe. Insomma, tutto il variegato mondo sociale di riferimento della sinistra – che in Francia vede, tra l’altro, una forte componente musulmana, tant’è che i suoi avversari parlano di islamo-gauchisme –, è chiamato a pronunciarsi in una elezione, e bisogna mobilitarlo quasi persona per persona, non esistendo più uno “zoccolo duro” elettorale, quanto piuttosto una diffusa disaffezione al voto.
Per tutte queste ragioni, non è più il tempo della socialdemocrazia e del suo doppio compromesso, quanto quello di un socialismo aperto a una pluralità di differenze, all’interno di una prospettiva politica che riesca a trovare un punto di equilibrio tra loro, e non si divida semplicemente tra “moderati” e “radicali”.