È scoppiata la zuppimania. Dal momento in cui si è appreso che Francesco aveva nominato l’arcivescovo di Bologna presidente della Conferenza episcopale italiana, la zuppimania ha invaso prima i social, poi il web, le tv, i giornali. È un fenomeno che va capito, al di là dell’anomalia dei molti racconti basati sull’amicizia – indubitabile – tra gli autori e don Matteo. Colpiscono soprattutto quelli dei non credenti, quasi sorpresi di poter dire che conoscono un prete, sì, ma non pensavano che quel prete così diverso da altri avrebbe fatto carriera. La zuppimania va capita, per tanti motivi: il più profondo è se abbiamo e quanto abbiamo bisogno di una Chiesa amica, finalmente capace di capirci e, parlandoci, di farsi capire. Il più evidente è quanto non lo fosse quella che esiste, quella Chiesa sempre maestra e mai madre, che in tanti conoscono senza amarla né sentirsi amati da lei.
Chi scrive, da agnostico, ha potuto constatare che in Paesi remoti, esotici, ignoti, dove è arrivato da turista spaesato, l’unico posto in cui entrando si è trovato naturalmente in un ambiente familiare è stata sovente la chiesa del posto. Al di là della fede, quel luogo gli appartiene e riguarda tanti di noi. Ma se altrettanto può valere per le chiese o le cattedrali italiane, con la Chiesa italiana non funziona così. La Chiesa italiana, quella istituzionale, con la maiuscola, è lontana. Se nel volto dell’ultimo presidente, il cardinal Bassetti, molti hanno visto una trasposizione del parroco tradizionale, quello che tutti avrebbero potuto desiderare di avere nel loro paese d’origine, la struttura anche con lui è rimasta severa, chiusa, fredda. Come definirla? Senza volere offendere nessuno, una Chiesa ruiniana. Erano, tutto sommato, soltanto quindici anni fa.
Quella a cui ci si riferisce è una Chiesa che dà i voti, alle leggi e ai fedeli, che ritiene di dover far rispettare i diritti di Dio, non di dover testimoniare l’amore per noi e le nostre difficoltà. Per scegliere un simbolo, la Chiesa che ha chiuso i battenti davanti alla salma Welby. Era usata quella salma? Può essere che qualcuno volesse usarla, non lo sappiamo. Sappiamo che lui, Welby, non violò la legge della Chiesa che proibisce di interrompere alimentazione e idratazione, non la ventilazione. E comunque sappiamo per certo che soffrì.
Quella porta chiusa aiuta a capire perché Zuppi sia il simbolo italiano della Chiesa aperta di Francesco. Chiesa in uscita, Chiesa che va nelle periferie. Non solo quelle territoriali, anche quelle spirituali. E che altro dovrebbe fare una Chiesa fondata sul discorso delle beatitudini? Forse rileggerlo aiuta a capire cosa sia la Chiesa ospedale da campo, che Francesco vorrebbe arrivasse in Italia con la presidenza Zuppi: “Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati gli afflitti, perché saranno consolati. Beati i miti, perché erediteranno la terra. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti hanno perseguitato i profeti prima di voi”.
Di tutto questo, nella porta chiusa davanti al feretro di Welby, si è visto poco, come in molte altre circostanze. È la Chiesa maestra, quella che si sente un giudice eterno, al di sopra e al di là della storia, del tempo. La Chiesa che Francesco vorrebbe che Zuppi portasse nelle nostre contrade è invece una Chiesa che vive nella storia e nel tempo, con noi. Non è che non ritenga che siano importanti le radici cristiane dell’Europa, ma non crede che si tutelino iscrivendole nei documenti ufficiali, piuttosto testimoniandone l’esistenza nella nostra realtà. Per questo parla di periferie, territoriali ed esistenziali, di ospedale da campo, dove si curano le ferite dell’oggi: Chiesa in uscita, per incontrare l’uomo d’oggi, non chi – mediando altri linguaggi – ha tutti i bollini in regola.
Allora questa zuppimania, il cardinale che gira in bicicletta, che dorme alla casa del clero, che gira le periferie, che apre la cattedrale per i pranzi con i poveri, che si ferma a parlare con tutti, va capita. Prima che per le grandi sfide ecclesiali – che si chiamano sinodo, ruolo dei laici e delle laiche, inchiesta sugli abusi sessuali –, va capita per quel che significa non per chi ha fatto due chiacchiere con un prete simpatico e se lo ritrova presidente della Cei, ma per la nostra società secolarizzata. La secolarizzazione non è un disvalore, ma cos’è? E la libertà? Siamo sicuri di saperlo, di avere le idee chiare?
Forse tornare alla fede di un tempo è la risposta impossibile che la società ha rifiutato, ma ritrovare la capacità di credere in qualcosa, in qualcuno, è un bisogno nascosto che la zuppimania ci indica? È il consumismo individualista la scelta che abbiamo fatto senza più esserne certi? È il bisogno di un amico col quale parlarne, liberamente, sentendosi capiti e non obbligati a capirlo, ma col desiderio almeno di ascoltarlo quello che ci porta a vivere questa zuppimania? “Dobbiamo cambiare prospettiva”, dice sempre Matteo Zuppi. Lo dice alla Chiesa, certamente, ma forse lo dice anche a noi. Chissà…