Due aspetti della puntata di “Report” e del servizio di Paolo Mondani sulla strage di Capaci, andato in onda il 23 maggio, sono rilevanti, di grande interesse pubblico. Il primo: come caspita è possibile che, a tanti anni di distanza, vaghino nell’etere, come piume leggere, pesanti documenti con testimonianze non sufficientemente verificate? Non ci basta sapere che un magistrato, di cui non si fa il nome (in un pezzo di Marco Lillo su “Il Fatto”), ritenga non attendibile Alberto Lo Cicero, autista del boss Mariano Tullio Troia, soprannominato U’ Mussolini, che dice già abbastanza. Lo Cicero – informatore, lo sono spesso i mafiosi, e poi pentito – disse al suo referente nell’Arma dei carabinieri, Walter Giustini, di aver visto a Capaci, dove abitava, prima della strage aggirarsi uomini di Totò Riina – ma non solo loro. Dice alla propria compagna, Maria Romeo, sentita da Mondani, di aver fatto un sopralluogo a Capaci, insieme con un uomo che poi riconosce in Stefano Delle Chiaie, navigato boss del neofascismo italiano. E non basta: la faccenda più importante, quella che ci fa rizzare i capelli è che, secondo la Romeo, Lo Cicero andò a parlare con Borsellino dopo la strage del maggio, gli raccontò tutto. Lei lo sa perché lo accompagnò.
Qui si pretenderebbe di poter contare su un lavoro investigativo esauriente, diremmo granitico. Invece no. Quel lavoro sembrerebbe proprio che non sia stato fatto. E sapete perché è grave? Perché l’accelerazione dell’attentato contro Borsellino non è mai stata spiegata – tralasciando l’ipotesi, a nostro avviso pallida, della consapevolezza del magistrato di una trattativa in corso tra boss e apparati, sai che novità. E questa è un’ipotesi investigativa di straordinario valore, avanzata da diversi inquirenti, che potrebbe collocare nel giusto scenario i fatti sui quali ancora ci interroghiamo. Borsellino, uomo che proveniva da ambienti della destra, aveva le sue buone fonti: davvero incontrò Lo Cicero? Ovvio che nel caso non verbalizzò un bel niente, magari scrisse tutto sull’agenda rossa, che infatti fu rubata tra le macerie di via D’Amelio, e non dai mafiosi. Totò Riina lo diceva dal carcere: “Mica sono il parafulmine d’Italia! Mica ho fatto tutto io!”
23 maggio, 19 luglio: un breve arco di tempo, poche settimane nel corso delle quali si nasconde il nucleo più sporco dei misteri italiani: lo stragismo come forma di ricatto politico, messo in atto dai poteri criminali insieme alle forze di destra. Una chiave di spiegazione della destabilizzazione italiana che è già storia fino a quell’ultimo decennio degli anni Novanta, quando fu protagonista lo stragismo mafioso. In sede giudiziaria: forse perché non c’è stata la volontà nelle procure? Questo inquieta. Certamente, nell’immediatezza delle stragi vi fu sconcerto, forse vero terrore subìto soprattutto da chi era in prima linea: quel tritolo di via D’Amelio risuonò in ogni angolo di strada, a Palermo e ovunque: vi veniamo a prendere ovunque siate, se ci cercate.
Ma non tutto si fermò. Nel 1999 un valoroso magistrato della Dda di Firenze, Gabriele Chelazzi, scomparso improvvisamente – e scandalosamente non venne richiesta l’autopsia –, stava indagando sulle bombe di Roma e Firenze, quando un collaboratore messinese, Luigi Sparacio, gli disse di avere incontrato a Roma il capo di Avanguardia nazionale, cioè Delle Chiaie, il quale “dava strategie politiche a Cosa nostra, e che consegnò una mappa dell’Italia, con i segni fatti con la X che rappresentavano gli attentati da fare”.
Sono passati trent’anni da allora, e oggi non rassicurano i compartimenti stagni nei quali continuano a lavorare diverse procure. Dall’anomalo comunicato contro “Report”, emesso dalla procura di Caltanissetta, si comprende che per loro Lo Cicero non ha mai parlato di Delle Chiaie, ma sembrerebbe che i verbali siano a Palermo. Insomma, la storia d’Italia nel frullatore.
La puntata di “Report” chiama in causa poi la questione della agibilità del lavoro dei giornalisti. I principi sono fissati bene nella Carta costituzionale e nell’ordinamento: il diritto di cronaca va salvaguardato sempre. Punto. Ma le leggi sono ambigue in merito alla riservatezza delle fonti, che non è assoluta (come sa chi scrive, a suo tempo mandata a processo dalla procura di Caltanissetta, con altri vertici): se un giudice ritiene che sia importante può chiedere un decreto ad hoc, che impone al giornalista di parlare, cioè di tradire la persona con cui ha stabilito un rapporto di fiducia. Il giornalismo vive di fonti e di riservatezza, quella legge va cambiata. Può piacere o no, il servizio di Paolo Mondani – ma cosa c’entra quell’aggressione da parte del procuratore, che velatamente (ma neppure tanto) lo accusa di avere influenzato il suo testimone? Se si ritiene che un giornalista abbia commesso un reato svolgendo il suo lavoro – anzi, se una procura lo ritiene – procede con i suoi strumenti, che non sono quelli del comunicato stampa, insidioso, accusatorio, diremmo minaccioso. Non ci piace, noi siamo con Paolo Mondani.