Dal mai ratificato e mai applicato Trattato di Sèvres del 1920 (firmato, dopo la Prima guerra mondiale, tra le potenze alleate e l’impero ottomano), che prevedeva un loro Stato indipendente, le esigenze dei curdi, fino a oggi, sono state sempre disattese. Aiutati o dimenticati, a seconda delle convenienze politiche, sono ora diventati merce di scambio: sì all’ingresso di Svezia e Finlandia nella Nato per proteggersi dall’aggressività della Russia, ma – chiede il presidente turco Erdogan – fuori le organizzazioni curde, e le cittadine e i cittadini curdi, dai due Paesi nordici: per finire, ovviamente, nelle carceri di un Paese che li ha sempre odiati.
Com’è noto, per entrare nella Nato, c’è bisogno del consenso di tutti i Paesi membri. Le nazioni nord-europee hanno una grande e nobile tradizione di accoglienza di profughi e rifugiati che fuggono da dittature e regimi autoritari. A cominciare da chi si sottraeva alla ferocia delle dittature latino-americane, tutte sostenute – va ricordato – dagli Stati Uniti. Nel mirino del capo dello Stato turco sono soprattutto gli esponenti del Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan), che combatte in Turchia per l’indipendenza da Ankara, o almeno per un’autonomia sempre negata dai diversi governi che si sono succeduti. Ricordiamo la triste vicenda del presidente Abdullah Öcalan, prima illuso dal governo D’Alema sulla possibilità di ottenere l’asilo politico in Italia e poi costretto a partire per il Kenya, dove nel 1999 venne arrestato da uomini del regime turco, per essere imprigionato nelle carceri in cui si trova tuttora.
Nel mirino anche gli amministratori del Rojava, piccola entità statale autonoma situata nel Nord-est della Siria, creata il 21 marzo del 2014, governata democraticamente dalle milizie curde dell’Unità di protezione popolare (Ypg-Ypi), che Erdogan accusa di essere alleata con il Pkk. Prima sostenuti militarmente da Washington, in chiave anti-Isis, sono stati poi dimenticati da tutto il mondo occidentale – o quasi. Stoccolma ospita ben settantamila persone di etnia curda, e Helsinki circa quindicimila. I due Paesi nordici – che per lungo tempo hanno tenuto una posizione di neutralità nei confronti dei due blocchi, prima e dopo la fine dell’Unione sovietica – non hanno mai nascosto il loro sostegno all’Ypg, e nel parlamento svedese sono presenti anche sei deputati di origine curda.
Ma ora un grosso e inquietante punto interrogativo incombe su questa popolazione. E rischia di essere dimenticato il sacrificio di migliaia di uomini e donne che sono riusciti a sottrarre quei territori al califfato dell’Isis di Abu Bakr al-Baghdadi. Dopo questo contributo importante nel conflitto contro l’islamismo radicale, i combattenti curdi sono stati lasciati soli a fronteggiare gli attacchi turchi, messi in atto con la cinica approvazione degli Stati Uniti, che parlano di esportazione della democrazia, salvo poi non fare nulla per proteggere lo Stato più democratico dell’area mediorientale. Non si può entrare in contrasto con un Paese membro dell’Alleanza atlantica – come la Turchia, che ha uno degli eserciti più potenti al mondo, il secondo tra i Paesi della Nato –, il quale, tuttavia, continua ad avere un atteggiamento ambiguo nei confronti dell’estremismo. Lo ha fatto durante il conflitto siriano, e lo sta facendo ora, utilizzando combattenti dello Stato islamico e di Al Qaida.
Il sostegno di Stoccolma e Helsinki al Pkk è, almeno sulla carta, impossibile, perché la formazione armata viene considerata, dagli Stati Uniti e dall’Unione europea, terroristica. Ma Ankara non fa distinzioni: gli esuli curdi, ospitati dai due Paesi – e, aggiungiamo, anche da altre nazioni europee, in primo luogo dalla Germania e dalla stessa Italia – sono più o meno legati all’organizzazione di Öcalan, e rappresentano dunque tutti una minaccia per la sicurezza della Turchia. I curdi, in Svezia, si sono dotati di un’importante organizzazione sociale, sostenuta dallo Stato, a partire dal primo approccio scolastico negli asili e nelle scuole. Dal 2000 sono addirittura previste lezioni in lingua curda, diritto negato in Turchia.
A irritare i turchi c’è poi il rapporto esplicito tra membri del Ypg-Ypj e le autorità svedesi. Lo ha dichiarato senza mezzi termini l’ex ministra degli Esteri, Ann Linde, in carica fino allo scorso anno. “La Svezia – ha precisato – rimane un partner attivo dei combattenti siriani, e per il 2023 è previsto uno stanziamento di 376 milioni di dollari a sostegno dell’organizzazione, contro i 210 milioni del 2022”. Un appoggio che si traduce anche nella vendita di lanciarazzi AT-4, di produzione svedese, che rendono complicato per Erdogan dire sì all’ingresso nella Nato dei due Paesi. Da parte della Finlandia, più che il capitolo dell’accoglienza, è forte il sostegno alle organizzazioni curdo-siriane. L’attuale ministro degli Esteri finlandese, Pekka Haavisto, ha più volte condannato le azioni militari turche contro le formazioni curde, e messo uno stop alle autorizzazioni per l’export di armi verso la Turchia.
Un altro elemento di forte contrasto riguarda l’accoglienza riservata, dai due Stati europei, a esponenti legati al politologo e predicatore turco Fethullah Gülen, fondatore dell’omonimo Movimento Gülen. Ex alleato e amico del presidente turco, fautore di un dialogo tra un islam moderato e i valori occidentali, è accusato da Erdogan di essere uno degli ideatori del fallito colpo di Stato del 15 luglio 2016. Esponente di uno dei movimenti più importanti del mondo islamico, poco gradito sia ai partiti laici kemalisti sia all’estremismo islamico, è attualmente ospitato negli Stati Uniti, e le richieste di estradizione inoltrate da Erdogan sono rimaste lettera morta.
Questo scontro geopolitico, partorito dalla guerra russo-ucraina, rischia, come dicevamo, ancora una volta di vedere come vittima il popolo curdo, che, con i suoi venticinque milioni, rappresenta il quarto gruppo etnico dell’area mediorientale – dopo i turchi, gli iraniani e gli arabi. Allo stato attuale delle cose, non sappiamo come finirà questa triste vicenda. Si può sperare che Svezia e Finlandia non gettino a mare decenni di tradizione umanitaria nel nome di un legittimo desiderio di ingresso nella Nato, che tuttavia non aiuterebbe un’eventuale quanto auspicabile trattativa di pace tra Kiev e Mosca. Riemerge, in ogni caso, con grande evidenza la debolezza di un’Europa facilmente ricattabile. Ricordiamo i finanziamenti arrivati ad Ankara per bloccare il flusso degli immigrati diretti nel vecchio continente. E la Turchia farà di tutto per averla vinta, visto che cerca di compensare i gravi problemi economici che affliggono il Paese con una politica estera di stampo nazionalista.