Il processo di unificazione europea è notoriamente un esperimento ancora in corso, e al tempo stesso un ambito in cui si sta testando la possibilità stessa di una sovranità sovrastatale. Il tema è estremamente complesso: investe il modo stesso in cui si è finora dato forma all’Europa. I trattati attualmente in vigore sono quattro: dopo i primi passi mossi dall’Unione, nel secondo dopoguerra – a partire da una serie di accordi prettamente economici (Euratom 1957), e successivamente gli accordi di Maastricht (1992) che cominciavano a dare timidamente forma a un’Europa politica –, sono venuti la Carta di Nizza (2000) sui valori fondamentali, e il Trattato di Lisbona sul funzionamento dell’Unione (2007).
I limiti, sotto il profilo della ingegneria costituzionale, di quanto è stato fatto sinora sono evidenti. Anche solo a un rapido sguardo, emerge la parzialità degli accordi sottoscritti, che interessano singoli aspetti e non danno forma a un progetto organico. In effetti, da oltre un quarto di secolo, si discute animatamente non solo della legittimità di un ulteriore passaggio dalle singole sovranità statuali a un superiore potere unificato, ma di quanto un simile salto possa essere compatibile con i sistemi democratici nazionali. Non sono mancate voci autorevoli che si sono espresse negativamente in questo senso, esprimendo il timore di un eccesso di “sovranismo” nella costruzione di una costituzione europea, e ravvisando il pericolo di una situazione in cui il nuovo potere sovranazionale, che si verrebbe a configurare, potrebbe presentare un deficit di democrazia rispetto alle strutture e alle procedure dei sistemi democratici storicamente consolidatisi nei singoli Paesi.
Negli ultimi anni, però, già molto prima che le cose precipitassero prendendo la drammatica piega attuale, si era insistito sul fatto che nella sua concreta prassi operativa l’Unione ha già, in molti casi e in diversi campi, sviluppato un “potere sovranazionale unitario”, dotato dello spessore e della portata di azione caratteristici degli Stati sovrani; e così si sarebbe trattato solo di passare a una progressiva formalizzazione e implementazione di questo potere. Il nodo gordiano della questione rimane, tuttavia, quanto possano essere trasferiti concetti e strumenti della legittimazione democratica, storicamente sviluppati nei singoli “contenitori” nazionali, a una entità sovranazionale che provi a muovere i suoi primi passi. Quali adattamenti sarebbero necessari, quali criteri normativi? E quali sono i limiti democratici all’esercizio del nuovo potere? Quale modello di democrazia, tra i diversi disponibili, sarebbe il più adatto a circoscrivere un potere unitario europeo? Quale il ruolo dei cittadini nell’edificare la nuova realtà comune? Questioni, come si vede, piuttosto spinose, che a lungo si è preferito non toccare.
Non si tratta solo di discussioni accademiche, tanto che troviamo l’eco di queste preoccupazioni anche in discorsi dei massimi dirigenti europei – a cominciare da quello programmatico di Emmanuel Macron alla Sorbona, nel 2017, riguardante il rilancio dell’unificazione, il celebre testo Initiative pour l’Europe, in cui si cercava di circoscrivere il problema, affermando a chiare lettere che andrebbe meglio definita la sovranità europea, e che – in materia di difesa, immigrazione e politiche sociali – l’Europa avrebbe dovuto dotarsi di orientamenti comuni, di una dottrina condivisa che ne indirizzasse l’azione. D’altro canto, anche Olaf Scholz, appena giunto al potere, ha cercato di riproporre la questione nei colloqui di Parigi proprio con Macron, provando a rilanciare la pachidermica e pressoché stagnante “Conferenza sul futuro dell’Europa”, che avrebbe dovuto, nelle intenzioni dei promotori, creare il terreno per procedere a una revisione dei trattati, partendo dal basso e dalle esigenze dei cittadini, con una ridefinizione delle aree di intervento comunitario e un’intensificazione, a tutti i livelli, delle relazioni tra gli Stati membri.
Oggi il richiamo, che giunge da più parti, a una revisione dei trattati e a un’accelerazione del processo di unificazione – di cui attesta il discorso di Draghi davanti al parlamento europeo del 3 maggio scorso, di cui abbiamo già detto – ripropone ulteriormente la questione. Purtroppo, nonostante l’accento messo sulla urgenza, le procedure richieste per una modifica dei trattati sono tutt’altro che fluide, prevedono una serie di passaggi e richiedono il consenso unanime di tutti gli Stati membri. Non a caso, la procedura è molto più complessa quando si mette mano agli aspetti politici rispetto a quando si tratta di modificare gli aspetti commerciali.
Non è nemmeno pensabile, d’altra parte, che la questione del progetto costituzionale europeo riemerga improvvisamente solo quando c’è una guerra alle porte: cioè proprio nel momento storico in cui diviene oggettivamente più difficile pensare a un’apertura in direzione della creazione di uno spazio politico e di una forma politica che compensino, su scala europea, la crisi degli Stati nazionali, che appaiono, con le parole dello stesso Draghi, “inadeguati” di fronte a un conflitto potenzialmente più vasto. Insomma, l’unità europea rischia di venire invocata e richiamata frettolosamente, nel momento in cui si percepisce l’abissale vuoto creato dalla sua assenza. Di fronte alla guerra, diviene indispensabile una capacità di decisione comune, che invece manca e che – se le cose dovessero peggiorare – potrebbe mettere in discussione tutto quello che è stato finora faticosamente costruito.
Il problema maggiore appare risiedere in una sorta di circolo vizioso che si viene a creare, per cui è difficile pensare a una revisione dei trattati che si limiti a singoli punti o aspetti, che non tenga conto della necessità di un potere politico unificante; laddove questo potere potrebbe nascere solo da una energica spinta in senso costituente. Una spinta che i governi non vogliono o non sono in grado di dare, che potrebbe invece provenire dal basso, attraverso forme di partecipazione democratica: da movimenti sociali cui non si è prestata sufficiente attenzione, e ai quali non sono state offerte finora opportunità. Realtà sociali che potrebbero non solo tracciare vie diverse alla unificazione, rispetto a quelle burocratiche finora percorse, ma costituire anche un potente antidoto all’insorgere, in seno all’Europa, di divergenze e contrasti spesso costruiti dall’alto e dettati da interessi particolaristici. Questa però è forse un’altra storia.