Non conosce la parola fine la sanguinosa violazione dei diritti umani, da parte di Israele, contro il popolo palestinese. Le immagini della uccisione di Shireen Abu Akleh – la giornalista di Al Jazeera colpita a morte dai militari israeliani mercoledì 11 maggio a Jenin, mentre seguiva un’incursione dell’esercito – e quelle della successiva profanazione dei funerali della reporter, che ha addirittura messo a rischio la stabilità della bara, hanno fatto il giro del mondo e suscitato un’indignazione generale, come pure una scontata, quanto ipocrita, condanna da parte della “comunità internazionale”. Una cerimonia cattolica, per dare un ultimo saluto a una donna coraggiosa, violentata dalle cariche della polizia israeliana.
Questo crimine si inserisce in un contesto più ampio, che genera grande preoccupazione, anche e soprattutto perché non sembra interessare nessuno dei “grandi della terra”. “L’uccisione di Shireen Abu Akleh – denuncia con forza Saleh Higazi, vicedirettore di Amnesty International per il Medio Oriente e l’Africa del Nord – è un sanguinoso monito del sistema mortale con cui Israele circonda i palestinesi, che vengono impunemente uccisi ovunque. Quanti altri di loro – accusa Higazi – dovranno essere uccisi prima che la comunità internazionale chiami Israele a rispondere di questi continui crimini contro l’umanità?”
Nell’ultimo anno, le forze israeliane hanno ucciso almeno 79 palestinesi, tra i quali quattordici minorenni, nei territori palestinesi occupati. Dalla Nakba, la “catastrofe” – come i palestinesi chiamano il giorno della fondazione dello Stato di Israele, il 14 maggio 1948, che provocò la prima ondata di profughi –, fino ai giorni nostri è stato un susseguirsi di morti, deportazioni, forti limitazioni dei diritti esistenziali. Migliaia e migliaia di persone private praticamente di tutto, in un conflitto impari che ha provocato anche vittime israeliane, ma in una misura infinitamente minore. Decine e decine le risoluzioni Onu che obbligano Israele a dare il via libera al ritorno dei profughi palestinesi, sia del 1948 sia del 1967 – oltre che a ritirarsi dai territori occupati dopo la “guerra dei sei giorni” del 1967, quando lo Stato ebraico prese possesso di Gerusalemme est, prima controllata dalla Giordania, della West Bank (o Cisgiordania) fino alle siriane alture del Golan, passando per il Sinai egiziano, restituito però al Cairo nel 1979. Tutte risoluzioni ignorate da Tel Aviv, che ha sempre contato sull’appoggio incondizionato degli Stati Uniti.
Sappiamo bene che il popolo ebraico si è dovuto confrontare, nel corso dei secoli, con una persecuzione drammatica, che ha conosciuto il suo punto più alto con la Shoah messa in atto dai nazisti anche con la complicità dei fascisti di casa nostra. Quando si legge Primo Levi, o si guardano film come Schindler’s List o Il processo di Norimberga, ci si chiede “se questo è un uomo”. Ma i palestinesi non possono pagare in eterno per i misfatti commessi da altri, con un Occidente che guarda da un’altra parte perché ancora in colpa per quello che è successo nei foschi anni Trenta e Quaranta. E tuttavia intraprendere la strada che dovrebbe portare al famoso obiettivo “due popoli, due Stati” è sempre più difficile.
Il premier Yitzhak Rabin, che si era battuto per questo obiettivo, è stato ucciso, nel 1995, da un estremista israeliano nel clima d’odio orchestrato dal più volte premier Benjamin Netanyahu. Da allora il percorso che doveva condurre alla pace si è interrotto. Da un lato, una classe politica israeliana corrotta e allergica a ogni trattativa e, dall’altro, una leadership palestinese consumata come quella dell’Autorità nazionale palestinese, o fondamentalista come Hamas, hanno bloccato la strada a una pace diventata ormai utopica. Il primo passo che il mondo che conta dovrebbe fare, è nella direzione di considerare Israele certo come lo Stato degli ebrei, ma anche come uno Stato che, al pari di tutti gli altri, non può commettere crimini contro l’umanità restando impunito in virtù dei drammi passati.
Come ha detto il patriarca di Gerusalemme, Pizzaballa, nel condannare quanto accaduto ai funerali di Shireen Abu Akleh, “ci sono quattro milioni di persone che vivono qui che non si possono ignorare”. Si imbocchi questa strada, perché preferiamo ricordare gli ebrei, che nella stragrande maggioranza si identificano con Israele, come compagni di lotta contro il razzismo e il nazifascismo piuttosto che come violentatori di un popolo innocente, che sta pagando le colpe commesse da altri.