Un rapporto tormentato quello tra il premier israeliano Naftali Bennett e il presidente russo Vladimir Putin. Dopo il viaggio del leader conservatore ebraico lo scorso marzo a Mosca (vedi nostro articolo dell’11 marzo), finalizzato a mantenere aperto un colloquio tra la Russia e l’Ucraina, in virtù del fatto che in Israele vivono milioni di cittadini provenienti dai due Paesi, le relazioni tra i due si sono andate via via deteriorando. Soprattutto perché è scattata la pressione del ministro degli Esteri, Yair Lapid, apertamente filo-Kiev, anche per l’origine ebraica del presidente ucraino Zelensky (il quale, però, parlando di fronte alla Knesset, il parlamento israeliano, ha fatto la gaffe clamorosa di paragonare i morti ucraini con quelli della Shoah). Il nuovo approccio al conflitto ha condotto Tel Aviv a esprimersi favorevolmente sulla sospensione della Russia dal Consiglio dell’Onu per i diritti umani, dove la risoluzione è stata approvata con 93 voti a favore, 24 contrari e 58 astenuti. Una decisione ritenuta grave da Mosca, non contenta, evidentemente, della non adesione dello Stato ebraico alle sanzioni. Secondo quanto riporta “pagine esteri” (www.pagineesteri.it), l’ambasciatore russo in Israele, Anatoly Viktorov, in un’intervista alla tv Channel 11, spinge affinché Israele torni ad avere una “posizione più equilibrata”, sottolineando che l’amicizia tra i due Paesi c’è ancora, ma che non potrà avere un futuro qualora le cose non cambiassero.
A questo punto, è comunque scattata la ritorsione di Putin, all’indomani degli scontri tra palestinesi e polizia israeliana sulla Spianata delle moschee, violata dagli ebrei durante il Ramadan, quando possono entrare in quel luogo sacro a determinate condizioni. Il capo del Cremlino non ha esitato a esprimere telefonicamente la propria solidarietà al presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Abu Mazen. Il leader russo, secondo quanto riportato dall’agenzia palestinese Waf, ha assicurato il proprio appoggio, “in tutti i forum internazionali, e a fornire grano ai palestinesi e ad altri importatori in Medio Oriente”. Una solidarietà che risale a ben prima dell’arrivo di Putin al Cremlino, anche se il leader russo raramente si è lasciato andare a dichiarazioni di sostegno esplicito al diritto dei palestinesi a un proprio Stato.
La rinascita di un bipolarismo o tripolarismo Est-Ovest – tra Stati Uniti, Russia e Cina – è visto favorevolmente dai palestinesi, che tuttavia devono fare i conti con una leadership usurata come quella di Abu Mazen. In Cisgiordania non si vota per le legislative da quindici anni, mentre a Gaza Hamas, considerata dall’Occidente una organizzazione terroristica, sta diventando un interlocutore di Mosca, dove il 4 maggio scorso una delegazione del movimento palestinese che governa Gaza è arrivata per alcuni colloqui.
Tra le richieste di Mosca, c’è la possibilità di autorizzare il controllo russo sulla Chiesa di S. Alessandro Nevsky a Gerusalemme. Richiesta già fatta al precedente premier Netanyahu, che avrebbe ottenuto in cambio il rilascio di una cittadina israeliana detenuta a Mosca per possesso di marijuana. Ma da allora nulla si è mosso.
Come se non bastasse, a questi problemi se ne aggiungono altri di carattere geopolitico. Da tempo – precisa sempre “pagine esteri” – Israele ha libertà di volo in Siria per colpire eventuali obiettivi iraniani. Ora questa concessione è in forse: le incursioni israeliane avrebbero puntato obiettivi siriani, provocando la dura reazione russa. Mosca – per bocca del suo ambasciatore a Damasco, Alexander Efimov – ha affermato che potrebbe essere costretta a rispondere, in quanto la Siria, com’è noto, è un alleato del Cremlino. Uno scontro militare tra Israele e Russia è improbabile, ma il fatto che sia ventilato è indice delle difficoltà tra i due Paesi.
Israele sarebbe preoccupato, inoltre, per il cambio della guardia in territorio siriano. A causa della guerra contro l’Ucraina, i soldati russi di stanza in Siria potrebbero essere sostituiti da iraniani, in un quadro di miglioramento delle relazioni, non proprio idilliache, tra l’Iran e la Russia. Scenario che non fa certo dormire sonni tranquilli a Bennett.
Altro elemento non proprio favorevole alla distensione tra il gigante euro-asiatico e lo Stato ebraico, è stata la dichiarazione, nel corso di un’intervista televisiva, del ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov, il quale ha sostenuto che anche Hitler aveva origini ebraiche. Gaffe che ha costretto Vladimir Putin a chiedere scusa a Bennett.
Un quadro complicato, insomma, che vede protagoniste le guerre nel dettare l’agenda politica mondiale. Oltre, ovviamente, a quella tra la Russia e l’Ucraina, ci sono quelle tra Israele e la Siria, da un lato, e l’Iran dall’altro: conflitti cronici in Medio Oriente. E naturalmente quello tra gli israeliani e i palestinesi, che produce vittime di continuo, soprattutto tra questi ultimi. Lo scorso anno sono stati uccisi 319 palestinesi, almeno 71 minorenni e 43 donne. Centinaia i feriti, durante gli scontri già citati sulla Spianata delle moschee. Ma l’episodio che in queste ultime ore ha indignato i palestinesi, e l’opinione pubblica mondiale, è stata l’uccisione della giornalista di Al Jazeera, palestinese nonché cittadina degli Stati Uniti, Shireen Abu Akleh, avvenuta a Jenin in uno scontro tra esercito israeliano e palestinesi. La professionista, cinquantunenne, nota per il proprio coraggioso impegno, è stata raggiunta da colpi di arma da fuoco, e a nulla sono serviti l’elmetto e il giubbotto antiproiettile con la scritta “Press”. Chi ha sparato sapeva quello che stava facendo, se è riuscito a colpire Shireen in uno dei pochi punti vulnerabili. In un primo momento, c’è stato uno scontato rimpallo di responsabilità tra l’esercito e i miliziani palestinesi. Ma, con il passare delle ore, è apparsa evidente la responsabilità israeliana.
L’emittente quatariota, presso la quale lavorava la giornalista, non ha esitato a puntare l’indice contro i militari israeliani: “È stata uccisa a sangue freddo dalle forze israeliane. Un crimine atroce per impedire così ai media di svolgere il loro lavoro”. La viceministra degli Esteri del Qatar, Lolwah Alkhater, ha dichiarato che “gli occupanti israeliani hanno ucciso la giornalista di Al Jazeera Shireen Abu Akleh sparandole in faccia, mentre indossava il giubbotto della stampa e un elmetto. Questo terrorismo israeliano sponsorizzato dallo Stato deve fermarsi, il sostegno incondizionato a Israele deve finire”.
Stessa denuncia da parte del presidente Abu Mazen, secondo cui la giornalista, che da oltre vent’anni documentava gli episodi di repressione degli israeliani “è stata uccisa deliberatamente a sangue freddo”. La testimonianza di altri giornalisti ha sgombrato il campo sulla responsabilità del crimine: “Stavamo per filmare l’operazione dell’esercito israeliano, e all’improvviso ci hanno sparato senza chiederci di andarcene o interrompere le riprese” – ha raccontato Ali Sammoudi, producer di Al Jazeera, anch’egli ferito –, “il primo proiettile ha colpito me e il secondo Shireen”. Una versione ovviamente smentita dal premier israeliano Bennett. Ma – da Washingtona Parigi, fino alla Commissione europea – tutti chiedono un’indagine indipendente per accertare la verità. Sui possibili esiti, è comunque lecito avere dei dubbi.
La vita però continua, sia pure in mezzo a mille sofferenze. Così colpisce e commuove quanto successo nel corso di una cerimonia per ricordare la giornalista: due padri, con le loro figlie appena nate, hanno detto che le chiameranno Shireen. Come dire, anche se noi veniamo uccisi ci sarà sempre qualcuno che prenderà il nostro posto.