Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa? Il titolo di questo classico della commedia all’italiana, firmato da Ettore Scola nel 1968, riaffiora alla memoria assistendo alle mosse, apparentemente un po’ casuali e scomposte, di Giuseppe Conte nel tentativo di restituire una visibilità mediatica e un profilo politico riconoscibile al Movimento 5 Stelle. Per il quale l’amico da ritrovare è l’elettorato. Schiantato – ma non cancellato – nei sondaggi, che lo accreditano di un comunque rispettabile, e stabile, 13% medio di intenzioni di voto, il Movimento è alla ricerca di un riposizionamento che giustifichi i consensi residui e, se possibile, fermi il massiccio riflusso dei voti del 2018 in direzione dell’astensionismo.
Di fatto, il Movimento 5 Stelle si trova oggi nella sempre ambigua collocazione “di lotta e di governo”, che altri hanno sperimentato in passato, non sempre con successo. Si espone al rischio di essere percepito come velleitario o, peggio, doppio: quando alza il tono della polemica e azzarda qualche azione di disturbo in parlamento e nel governo, ma nella sostanza rimanendo schiacciato sulle scelte politiche concrete di Mario Draghi. La capacità di Conte e dei suoi di deviare la barra del timone, saldamente in pugno al dominus di palazzo Chigi, appare molto modesta.
Tre episodi, nelle ultime settimane, hanno reso più visibile un conflitto strisciante in atto praticamente dalla nascita dell’attuale esecutivo: il mancato sì dei 5 Stelle in Consiglio dei ministri sul decreto “Aiuti” per lo scontro sul termovalorizzatore di Roma; l’incidente parlamentare, sfiorato in commissione al Senato, sui fondi spostati dalle bonifiche dell’ex Ilva di Taranto alla produzione dell’acciaieria (quando il governo è stato salvato dalla provvidenziale astensione di Fratelli d’Italia, partito di opposizione a volte alquanto morbida); il botta e risposta con il presidente del Consiglio sul superbonus per l’edilizia.
Il punto di maggiore frizione, sotto gli occhi di tutti, però, è la guerra. Il parlamento, col sofferto voto del M5S, aveva autorizzato l’invio di armi in Ucraina sulla base della linea ufficiale secondo la quale alimentare la resistenza di Kiev all’invasione russa fosse l’unico modo per costringere Putin a moderare le sue pretese e ad accettare un negoziato. Una linea la cui credibilità è stata azzoppata dalle prese di posizione di Washington e Londra sulla necessità della “sconfitta” della Russia; oltre che dalla sempre più marcata partecipazione militare e di intelligence dei Paesi Nato ai combattimenti, emersa dalle rivelazioni della stampa statunitense sugli omicidi dei generali russi o sull’affondamento della nave Moskva.
Draghi ha ignorato la richiesta di Conte di un passaggio parlamentare formale (con voto su una risoluzione politica di indirizzo) prima della missione a Washington, dal comandante in capo Joe Biden. Parlerà la prossima settimana, ma solo per un’informativa, che non prevede voti successivi, contando sulla consueta, affettuosa benevolenza della stampa italiana, in altri contesti più sensibile alla sacralità e alla frequenza dei riti democratici. Il governo ha anche fatto sapere che una volta autorizzato dalle Camere all’invio di armi, senza particolari limitazioni, si sente libero di gestirlo a proprio piacimento fino a fine anno. Tutto mentre perfino sui principali quotidiani italiani, che sulla guerra hanno sposato una linea ultraradicale, filtrano i dubbi di intellettuali e grandi imprenditori sull’adesione dell’Italia all’oltranzismo atlantico, in apparente dissonanza rispetto agli sforzi di Parigi e, in parte, di Berlino. Ma lo stile di governo dell’ex presidente della Bce non prevede concessioni troppo visibili al compromesso con le forze parlamentari. Draghi gestisce in proprio il difficile equilibrio fra le perentorie direttive statunitensi e le preoccupazioni e gli interessi delle capitali europee, di cui egli stesso si è fatto timido portavoce nel suo viaggio negli Stati Uniti, facendo presente che va riaperto il dialogo fra le due capitali sostanzialmente in guerra, Mosca e Washington.
Per quel che possono contare in politica i sentimenti personali, è noto un certo grado di ostilità pregressa di Conte nei confronti di Draghi, fin da quando rifiutò sdegnosamente di accettare la compensazione di un posto da ministro degli Esteri a fronte del commissariamento esterno sui fondi europei per il Piano di ripresa e resilienza e, come si è visto in questi ultimi mesi, sulla postura geopolitica dell’Italia. Ma – a prescindere dalle argomentazioni di merito sulla guerra o sulla transizione ecologica – la battaglia dell’ex presidente del Consiglio riguarda il futuro dei 5 Stelle.
Collocato nella scia del governo Draghi con un certo slancio, a suo tempo, da un Beppe Grillo assediato da problemi giudiziari e sempre più distante dalla lotta per fazioni che aveva dilaniato la sua creatura politica, il Movimento ha pagato la scelta con un ulteriore calo nei sondaggi e la scissione alla spicciolata di un pezzo rilevante di parlamentari e semplici iscritti. I fatti dicono che il Movimento è ancora oggi impelagato nella sequenza di ricorsi giudiziari presentati da suoi attivisti, che mettono in discussione statuto e leader, minacciando la stessa possibilità di presentare liste elettorali: oggi alle amministrative, domani alle politiche. Ma dicono anche che l’inaridirsi dell’attivismo sul territorio ha reso molto difficile comporle, queste liste, e molto rischioso esporle al giudizio degli elettori: tanto che, al momento, quelle pronte per l’election day di giugno si contano sulle dita di una mano. Quasi ovunque, alle comunali, il ruolo dei 5 Stelle è quello di portatore d’acqua per il Pd e i suoi candidati sindaci.
Infine, le voci tutt’altro che pacificate che filtrano dai gruppi parlamentari dimostrano che il conflitto interno, che, dopo l’elezione del presidente della Repubblica pareva dovesse portare allo scontro finale fra Luigi Di Maio e lo stesso Conte, è solo sospeso. Potrebbe esplodere, con una nuova clamorosa rottura, se il leader decidesse per uno strappo vero nei confronti del governo, oppure in futuro, al momento di distribuire i pochi posti “sicuri” in lista alle politiche, dopo la riforma costituzionale suicida che ha tagliato di un terzo la rappresentanza eleggibile in parlamento.
Fino al mese di settembre, comunque, quando gran parte dei parlamentari matureranno il diritto al vitalizio, un’uscita forzata dalla maggioranza parlamentare rischia di provocare una vera e propria rivolta nei gruppi di Camera e Senato. Resta quindi improbabile, a meno che Conte non decida, con la rottura, di selezionare i fedelissimi e risolvere così in anticipo il problema della scrematura in vista delle candidature alle prossime elezioni. Così facendo, forse scongiurerebbe l’aggregazione di una forza di ex 5 Stelle, più o meno confusamente alla sua sinistra (forza potenziale, che però manca di leader conosciuti dagli elettori, a meno che Alessandro Di Battista non trovi il coraggio di farsi avanti), ma romperebbe, inevitabilmente, anche col Pd. Formalmente, i rapporti fra Conte ed Enrico Letta sono “cordiali” al punto che, dopo l’ultimo pranzo comune, hanno diffuso ai giornalisti una nota identica.
Sul piano delle posizioni sulla legge elettorale, resta la dichiarata convergenza sulla improbabile riforma in senso proporzionale. Per il Pd è già molesto il Movimento di lotta e di governo: se passasse a essere solo di lotta, svincolato dal patto di maggioranza e libero di tirare sul quartier generale, le voci ostili al “campo largo” di Letta (quello che comprende Conte) diventerebbero più forti: e, a quel punto, il proporzionale sarebbe solo un regalo all’ex alleato. Regalo che è assai poco probabile venga infiocchettato prima delle prossime elezioni.