Le cause delle guerre sono complesse, talvolta inafferrabili: ogni sguardo su di esse rischia di essere angusto e parziale, quando non del tutto fuorviante, se non è ispirato a una molteplicità di punti di vista. Si va da un generico discorso sull’innata aggressività umana a quello intorno alla necessità, cui le guerre risponderebbero allo stesso modo delle epidemie, di porre un freno alla sovrappopolazione sulla terra. Più perspicuo appare l’argomento economico (tirato in ballo anche da papa Bergoglio), che riconduce le guerre all’interesse dei fabbricanti e dei trafficanti d’armi, i quali farebbero dei diversi teatri bellici l’occasione per mettere alla prova i loro mortiferi congegni. E il vecchio materialismo storico indurrebbe a sostenere che l’aggressione dell’Ucraina, da parte della Russia, si può interpretare con il desiderio di quest’ultima, o dei suoi circoli economico-finanziari, di mettere le mani sulle risorse minerarie del Donbass. Oppure, nel senso di una “distruzione creatrice” alla Schumpeter, si potrebbe affermare che la vera posta in gioco di un conflitto sia quella di stabilire a chi andrà in seguito, con la pace, il grande affare della ricostruzione.
Poi c’è la geopolitica. Molto in voga, in questo momento, essa vede le guerre incardinate nella politica di potenza di Stati e nazioni, o anche di etnie, in lotta tra loro per la difesa dello “spazio vitale”: il che prende spesso la forma di una contesa intorno alla definizione o ridefinizione dei reciproci confini. Questo modo di pensare – che ha una marca nettamente conservatrice – affonda le radici in una concezione realistica della politica, che fa delle relazioni interstatali, fissate di volta in volta nei rapporti di forza, un principio granitico – e quindi delle guerre il modo per giungere a equilibri almeno temporaneamente pacifici. È ciò che si può presumere ritengano Putin e la sua cerchia, secondo cui la Russia “stava meglio” quando l’Ucraina non esisteva affatto, e il suo compito storico attuale sarebbe o di cancellarla dalla carta geografica come entità indipendente, o di ridurne di molto il territorio.
Una variante leggera di questo tipo di spiegazione, quasi una geopolitica a fumetti, è quella che si è potuta ascoltare dalla voce di Lucio Caracciolo che, in una delle numerose trasmissioni televisive dedicate al tema, ha dichiarato: “Putin è un signore che è andato al potere convinto di trovare in Occidente un posto dignitoso per sé e per la Russia. Gli è stato fatto credere che fosse possibile. Si è poi capito che queste erano delle illusioni, da parte di Putin. Lui si è sentito offeso anche personalmente. Ha sentito una mancanza di rispetto verso di sé e verso la Russia”.
C’è da dire che “scatenare una guerra perché ci si sente personalmente offesi” fa parte di una lettura ispirata a una psicologia quanto meno dozzinale dei rapporti geopolitici. Se un argomento del genere, riguardo alle cause della prima guerra mondiale, l’avessimo trovato in Gli ultimi giorni dell’umanità di Karl Kraus, messo in bocca a uno dei suoi spiritati personaggi, l’avremmo considerato senza dubbio un segno della volontà satirica del suo autore.
Del resto, Putin e il suo sistema di potere, sono – o erano – benissimo acconciati all’interno delle relazioni con l’Occidente. Si tratta di due varianti di uno stesso sistema economico – in cui ciascuno vendeva e comprava ciò che gli era utile, e in cui l’Occidente era soprattutto interessato all’acquisto di materie prime come il gas e il petrolio. Il mondo delle cosiddette democrazie occidentali tollerava che in Russia si avvelenassero i dissidenti, si uccidessero i giornalisti non allineati, o che Putin modificasse la costituzione a suo uso e consumo per restare in sella il più a lungo possibile. Tutt’al più – a leggere gli avvenimenti con la solita lente geopolitica – gli Stati Uniti e l’Europa volevano attrarre nel proprio campo alcune delle ex repubbliche sovietiche, anche in ragione di rivolte e movimenti popolari nati nei singoli Paesi: cosa che facevano mediante una forma di influenza, che con il senno del poi sarebbe stato meglio evitare di esercitare, ma senza minacciare un attacco armato alla Russia.
Una guerra però non è soltanto una questione di geopolitica; è anche, per quanto possa essere sorprendente scoprirlo, un mezzo di comunicazione anzitutto al proprio interno, con la galvanizzazione cui un regime (erede in linea diretta, non va dimenticato, di uno dei totalitarismi del Novecento) ricorre per rafforzare il consenso nel Paese, per poi estenderlo, con un effetto di cassa di risonanza, nel caso della Russia, a tutti i connazionali, presunti o reali, al di là dei confini. L’espansionismo territoriale va visto come un fine in sé, o non è soprattutto uno strumento propagandistico? E il nazional-populismo della “grande madre Russia” è semplicemente un’ideologia, con cui un sistema di potere cerca di coprire quelli che sono i propri interessi spesso criminali, o non è la maniera con cui tenere insieme una “società dei pochi” (si parla, a proposito del regime putiniano, di una oligarchia di circa ventimila persone), disposta a rinunciare, per un tratto anche lungo, ai proventi e ai privilegi provenienti dagli affari e dall’interscambio con l’Occidente?
In questa chiave comunicativa, si può vedere nella distruzione bellica – con i lutti che provoca in primo luogo a quelli che vorrebbe difendere, come i russofoni nel Donbass – la manifestazione di una politica di potenza, ma, ancor più, una paradossale ricerca identitaria da costruire con la distruzione stessa. Più morti, più rabbia; più l’odio viene sparso a forti dosi e più una leadership può essere amata. Per questo una rapida prospettiva di pace, sia pure di una “pace armata” – ma con un costo, mettendo cioè in conto una divisione ragionevole dell’Ucraina –, sarebbe il modo migliore per depotenziare una dirigenza che – non sappiamo quanto incerta di se stessa – ha scatenato una guerra che, nel medio periodo, può essere un suo efficace megafono.
Resta poi, fuori e al tempo stesso accanto a tutto ciò, il barlume di un’utopia irriducibile alla mera geopolitica. Che sarebbe l’idea di un movimento storico generale verso un mondo in cui, messa al bando la guerra, controversie e conflitti siano ricondotti a forme di lotta sociale democraticamente aperta. Che differenza farebbe, in fondo, per un povero diavolo del Donbass trovarsi al di qua o al di là di un confine, se di qua come di là non c’è spazio per far valere le proprie rivendicazioni intorno a una qualità della vita appesantita da condizioni che ne limitano fortemente le potenzialità?