Gli ecologisti e i socialisti hanno fatto benissimo a sottoscrivere un patto con la France insoumise di Mélenchon per le prossime elezioni legislative di giugno: ma a questa intesa – che può essere detta tattica o politico-elettorale, non strategico-programmatica – avrebbero fatto meglio ad arrivare preventivamente uniti tra loro, non a trattare separatamente la spartizione delle candidature nelle circoscrizioni (che sono dei collegi maggioritari a doppio turno), lasciando così arbitro della situazione il cosiddetto tribuno della sinistra radicale. D’altro canto, il Partito comunista (che ha ottenuto quella piccola fetta di torta in grado di consentirgli, con relativa sicurezza, di avere un gruppo autonomo all’Assemblea nazionale) dovrebbe mangiarsi le mani per avere presentato alle presidenziali un proprio candidato, impedendo a Mélenchon per un soffio il traguardo del ballottaggio contro Macron, e al tempo stesso indebolendosi nel negoziato successivo, in cui la France insoumise ha fatto la parte del leone.
Perdura – in questa vigilia del “terzo turno”, come viene chiamata l’elezione per il rinnovo del parlamento dopo il secondo turno delle presidenziali – quella che in un precedente articolo abbiamo definito l’“amara sorte della sinistra francese”. Certo, l’amarezza è meno marcata – ma non si può dire che un’alleanza elettorale improvvisata, sotto il nome pomposo di “nuova unione popolare ecologica e sociale”, sia il superamento delle divergenze precedenti. Queste sono state messe da parte, non risolte. Il nodo principale resta quello dell’Europa. Mélenchon, da buon sovranista “di sinistra”, è un euroscettico: non qualcuno che predichi la fuoriuscita della Francia dall’Unione europea, questo no, ma indubbiamente un uomo politico che, se dovesse arrivare a formare un suo governo – cosa possibile in astratto, dato il forte ribasso della fiducia nei confronti di Macron e del suo mondo, e tuttavia non molto probabile –, si troverebbe in contraddizione con le scelte, oggi sempre più necessarie, verso una maggiore integrazione europea.
Vero è che la Francia ha spesso e volentieri evitato, nella sua storia, di mettere in pratica le direttive europee; e Mélenchon si limita a dire che alcune di queste potrebbero essere respinte con una forma di disobbedienza. Ma il punto sarebbe, semmai, il mutamento delle regole mediante una battaglia politica all’interno dell’Unione – soprattutto in un momento come questo, in cui le vecchie compatibilità sono crollate –, non la manifestazione di una riottosità, in fin dei conti nazionalistica, alla loro applicazione. Il socialista Hollande, a suo tempo, si fece eleggere presidente con un programma che prevedeva una rinegoziazione del famigerato patto di stabilità europeo; poi non ne fece niente, si adeguò. Una politica per un’Europa ecologica e sociale non dovrebbe essere incentrata né su una passività supina né sulla riottosità: dovrebbe prevedere una linea di azione per smuovere le acque.
Su questo, e su altro, il patto per una “nuova unione popolare” preferisce glissare. Non si tratta, infatti, di un programma comune tra quattro forze politiche che si sforzino anzitutto di impiantarlo nel tessuto della società, con la costruzione di un blocco sociale, ma di un espediente elettorale per cercare di raggiungere una maggioranza all’Assemblea – o, più verosimilmente, per impedire a Macron un successo travolgente come quello del 2017, quando era stato eletto alla presidenza per la prima volta.
Mappa delle circoscrizioni alla mano, la sinistra può andare relativamente bene, certo meglio di come sarebbe andata con candidature separate, complice anche la divisione che c’è all’estrema destra, dove Marine Le Pen ha fatto la scelta di “liquidare” semplicemente il neo-partitino di Zemmour rifiutandosi a un’alleanza. Ma la questione è: quanti bobos parigini voteranno il candidato melenchonista presentato nel loro collegio, al posto dell’ecologista che avrebbero preferito? E quanti elettori del mondo rurale si recheranno alle urne per sostenere l’ecologista piuttosto che il “notabile” socialista della zona? Tanto più che nel Partito socialista l’accordo è stato accolto non senza notevoli resistenze, e adesso si profila un certo numero di candidature indipendenti, in concorrenza con quelle unitarie: quelle di esponenti socialisti che non rinunceranno a presentarsi nei territori in cui sono radicati.
Far crescere un programma di cambiamento nella realtà sociale implica che questo sia credibile – e che sia studiato per poter soddisfare un po’ tutte le domande di un elettorato di sinistra ed ecologista molto composito, in cui si deve tenere conto di esigenze spesso in contrasto tra loro. Solo a poco a poco – con un lavoro di mesi, non di poche settimane – un’alleanza progressista può persuadere i suoi potenziali elettori di rinunciare a qualcosa, pur di rendere concreta la prospettiva di un governo di discontinuità. Diversamente – se si segue la via della personalizzazione forsennata, se ci si propone come l’uomo del “voto utile”, come ha fatto Mélenchon al primo turno delle presidenziali, evitando di trattare con le altre forze di sinistra –, si hanno poi dei risultati incerti, scritti sulla sabbia.
Nella foto: Hôtel Matignon, sede del primo ministro francese