Cari amici, vi ringrazio dell’invito a scrivere nuovamente sulla guerra in Ucraina. Sul piano strettamente politico, non ho nulla di più da dire rispetto al mio articolo apparso su “terzogiornale” lo scorso 3 marzo; potrei solo modificarne qualche parola o i toni di qualche frase. Posso aggiungere, invece, qualche commento ai due pezzi molto interessanti di Riccardo Cristiano e Michele Mezza sullo stato penoso dell’informazione giornalistica e televisiva in questo momento.
Si ricerca il diavolo, dice Cristiano, invece che ragionare in modo specifico, in una logica esasperata di amico/nemico. Ha ragione, e questo sragionamento non comincia con la guerra in Ucraina, ma già negli ultimi due anni, con i viscerali scambi di insulti tra pro e anti-vax; quasi che il contenuto del contendere passi in secondo piano rispetto alla belluina e violenta struttura intollerante con cui viene condotto il discorso.
Temo che questo modo di informare e di discutere corrisponda a un profondo desiderio psichico di violenza e di aggressione, simile a quello che secondo Freud circolava tra gli intellettuali europei intorno al 1915. L’insensato entusiasmo per la guerra corrispondeva allora a una profonda stanchezza, a una radicale “crisi della presenza” che investiva l’ordine simbolico apparentemente intangibile fino a qualche tempo prima.
In Al di là del principio del piacere e poi negli scritti successivi degli anni Venti, Freud riflette su una vera e propria “apocalisse culturale” (o crisi della presenza) che sta sgretolando l’ordine simbolico vigente in Europa. L’entusiasmo per la guerra e l’intolleranza verso il nemico ne sono un sintomo, che rivela la patologia profonda dell’inconscio del collettivo. Essa deriva, in realtà, da una profonda malinconia depressiva, da un dominio e da un desiderio di morte, che sembrano rendere inaccettabile lo stato di cose esistente. La “pulsione di morte”, di cui parla Freud, può dirigersi verso se stessi, fino allo stato limite di regressione all’elementare, che Freud chiama nirvana. Ma – in mancanza di una prospettiva credibile di cambiamento politico e sociale – questo stato depressivo può infine rivelarsi insostenibile e rovesciarsi in un’aggressiva voglia di distruzione dell’altro, verso l’esterno. Freud riflette su questo nell’Io e l’Es: “La libido ha il compito di mettere questa pulsione distruttiva nell’impossibilità di nuocere, e assolve questo compito dirottando gran parte della pulsione distruttiva verso l’esterno (…). La pulsione prende allora il nome di pulsione di distruzione, di pulsione di appropriazione, di volontà di potenza”.
Questa conversione è alla base dell’euforia iniziale che spesso introduce alla guerra. Il cammino verso di essa pare scandito secondo tre stadi: dapprima, la disgregazione di un ordine simbolico percepito ormai visibilmente come desueto e lacerato da richieste contraddittorie e conflitti insolubili; poi la depressione che ne consegue, il ristagno, in cui i legami sociali e affettivi sono coinvolti da tonalità emotive come quelle descritte da Heidegger nei suoi saggi degli anni Venti (l’angoscia, la noia, lo sgomento), e che segna il prevalere di una pulsione autodistruttiva; infine, l’euforico scatenarsi all’esterno di questa distruttività, che il soggetto avverte inizialmente come un’esplosione liberatrice, prima di essere colpito, retroattivamente, dal trauma che ne consegue. Questa stessa conversione conduce Hans Castorp (il protagonista della Montagna magica di Thomas Mann) e Bardamu (personaggio del Viaggio al termine della notte di Céline) nelle opposte trincee e nel comune annientamento. Per tacere dell’estetizzazione parossistica dell’interventismo e del futurismo italiani.
Ora, come si legge nello Stradone di Francesco Pecoraro, noi abbiamo vissuto un ristagno profondo a partire dagli anni Novanta del Novecento, una lenta disgregazione del nostro ordine simbolico, che lasciava apparentemente intatta la facciata dell’edificio, mentre le crepe si approfondivano all’interno, fino a che colpi di gomito sempre più decisi non hanno iniziato a sgretolare anche l’esterno. Durante i due anni di pandemia, ci siamo medicalizzati in modo ossessivo: abbiamo perso il contatto col nostro corpo e con quello degli altri, abbiamo comunicato solo attraverso schermi e simulacri, abbiamo, insomma, patito in modo totalizzante il dominio della morte e della malattia e il declino di qualsiasi pulsione di Eros, per continuare a usare il vocabolario di Freud.
L’ottusità e l’intollerabilità dei poteri che ci governano – a cui appartengono sia Putin sia la Nato –, debordando oltre i campi lontani dell’Iraq, della Siria o dell’Afghanistan, sono giunte a sconvolgere le nostre esistenze, ad avvelenare l’aria che respiriamo, a uccidere e a rendere pura astrazione ogni relazione umana, portando a compimento processi di alienazione che il capitalismo sta mettendo in opera da anni.
Epidemie, guerre, carestie – sono i segni che il nostro tempo è uscito dai suoi cardini e che l’ordo valoriale del neoliberismo europeo e occidentale sta cedendo sotto il peso della catastrofe che ha provocato. Il problema non è se, ma quando e come. L’Europa non cessa di finire, come un Impero asburgico sempre prossimo alla propria rovina, che uomini “senza qualità” tentano sempre più confusamente di rinviare: “Nel ristagno non ci inventiamo nulla, non sappiamo nulla e non ci interessa niente (…). Tutto qui intorno sta sbiadendo, attenuandosi e come spegnendo. Non so quanto durerà, ma durerà ancora a lungo (…). È un’apocalisse lentissima che dura da anni. Molto probabilmente non prevede alcun tipo di resurrezione, di assoluzione, assunzione in cielo e nessuna dannazione, solo un’autentica, irreversibile decadenza, fatta di anzianità e di trascorso, cui va aggiunto un passato novecentesco privo di estetica, di qualità urbana, di propensione all’invenzione e di vero progresso civile e mentale” (Pecoraro).
Durerà ancora a lungo? Si può cominciare a dubitarne.
Scriveva Benjamin, in un suo testo degli anni Venti del Novecento, che “così non si può andare avanti” è un detto che conquista popolarità nei periodi di crisi, è un segno inequivocabile “di stupidità e di viltà”. La disgregazione dell’Europa dopo la grande guerra ci pone, invece, di fronte a una “durata nella catastrofe”. Occorre sostituire all’idea di “crisi” – come precipizio acuminato e culminante, diceva Benjamin – quella di un protrarsi indefinito e corrosivo di uno stato di povertà e derelizione, di disuguaglianza e ingiustizia. Occorre dunque operare un rovesciamento di prospettiva e “accogliere i fenomeni di decadimento come il puro e semplice dato stabile, e solo un segno di salvezza come qualcosa di straordinario, ai limiti del portentoso e dell’incomprensibile” (ancora Benjamin).
Sinistri segnali di fascismo, razzismo e guerra si stanno diffondendo nel presente; pandemie e dissesti ecologici e guerre avvertono della distruzione che il capitale mette in opera sulla terra. Eppure il senso comune non esplode più nella frase, tanto criticata da Benjamin, “così non si può andare avanti”: anche se chi ha più di cinquant’anni ricorda spiagge ora inesistenti, cieli estivi meno crudeli, ghiacciai erosi. Questo dissolvimento del mondo non suscita un allarme profondo, la sua paurosa carica affettiva viene anestetizzata. È nota, ma non è conosciuta, non diventa esperienza.
Ciò non vuol dire che essa non costituisca una tonalità emotiva profonda, un trauma inconscio, un’atmosfera psichica di angoscia e depressione. Essa è però esclusa dal linguaggio o condensata e spostata, come in un brutto sogno, nella malignità perversa dell’“altro”. E allora si cerca, sempre e comunque, il diavolo: “La morte che conferma il potere delle istituzioni dominanti impedisce la morte nella lotta contro di loro” (Kracauer).