Non sono stati frequenti gli scontri fra il governo presieduto da Mario Draghi e la pur abitualmente rumorosa leadership di Confindustria. Ma nelle ultime settimane il ministro del Lavoro, Andrea Orlando, è stato investito dalle accuse violente della più potente associazione imprenditoriale, che si è spinta addirittura a parlare di “ricatto” del ministro e, attraverso il suo quotidiano, di “scambio improvvisato tra incentivi alle imprese e aumenti salariali non meglio precisati”. Per precisarli, servirebbe l’apertura al confronto; ma gli industriali, abituati come sono da troppi anni a incassare favori, sconti fiscali e sussidi senza dover mai discutere contropartite, hanno reagito male all’idea di doversi misurare con una “questione salariale”. C’è mancato poco che il “Sole 24 Ore” desse del delinquente al ministro (un ricatto non è una azione particolarmente commendevole, per un rappresentante istituzionale).
Si presta a qualche stupore anche la reazione del ministro, che si è detto “sorpreso”, quasi si fosse distratto per qualche anno di fronte alla crescente radicalità delle posizioni – e dei toni – degli imprenditori. Di sicuro, non ci siamo sorpresi noi, che ricordiamo bene l’impegno profuso negli anni scorsi dalla Confindustria – e da quella parte piuttosto larga del mondo dell’informazione che risulta maggiormente sensibile alle sue posizioni – in direzione di un cambio di governo e della sostituzione di alcuni ministri, quello del Lavoro compreso. È difficile, tuttavia, dare torto a Orlando quando dice, con logica ineccepibile, che non ha capito “cosa si vuol mettere in questo patto, se significa chiedere qualcosa non è un patto”.
In questo panorama politico-sociale, con oltre tre milioni di lavoratori poveri, certificati dall’Istat (400mila in più con la pandemia), circa il 12% della forza lavoro totale, che vivono con meno di 11.500 euro l’anno, i salari italiani fermi da quasi tre lustri, con un divario crescente rispetto ai partner europei, con una inflazione che galoppa oltre il 6% su base annua ad aprile, il Pil che torna a contrarsi, sorge spontanea la domanda sulle ragioni di tanta aggressività da parte della Confindustria. In che modo l’impoverimento progressivo e drammatico di milioni di lavoratori – che sono giocoforza anche consumatori – potrebbe non danneggiare le stesse imprese? I lavoratori sono pur sempre una fetta del mercato interno. Evidentemente, a pesare è sempre la tradizionale impostazione delle imprese esportatrici, che puntano sulla competitività di prezzo fondata soprattutto sulla compressione salariale. Il boom delle esportazioni (516 miliardi nel 2021) ha evidentemente rafforzato il peso di questa visione, che potrebbe però rivelarsi molto miope di fronte alla violenta ristrutturazione dei mercati globali in atto, apparentemente soprattutto a danno dell’Europa, a causa della guerra in Ucraina e delle sanzioni contro la Russia.
L’incontro del 2 maggio fra sindacati e governo a palazzo Chigi sarebbe stata una preziosa occasione per prendere il toro per le corna: per i segretari di Cgil, Cisl e Uil per ribadire innanzitutto la loro solidarietà nei confronti dell’intenzione dichiarata dal ministro di aprire un vero confronto che inglobi il tema dei salari nella partita degli aiuti infiniti alle imprese, il Sussidistan che piace al numero uno di viale dell’Astronomia, Carlo Bonomi. Ma si è trattato forse di una occasione mancata. Certo, i leader confederali hanno ribadito la necessità di interventi contro la precarietà, per una semplificazione dell’ingresso sul mercato del lavoro, e di una spinta ai rinnovi contrattuali per puntellare i salari. Ma il tema del lavoro povero parla soprattutto della questione del salario minimo,che “terzogiornale” ha già affrontato in passato (per esempio qui). Proprio su questo, tuttavia, nonostante il varo di una direttiva europea che dovrebbe spingere tutte le parti in causa ad aggiornare il loro repertorio, le parti tacciono, se si esclude un cenno fatto da Maurizio Landini all’uscita da palazzo Chigi.
El pan antes que trigo es mano que siembra (“il pane prima di essere grano è mano che semina”), cantavano tanti anni fa gli Inti Illimani: restituire dignità a chi lavora per quattro-cinque euro l’ora anche con regolari – si fa per dire – contratti di lavoro, dovrebbe essere nella situazione odierna una emergenza nazionale. Se il salario minimo, invece, resta una bandiera del solo leader pentastellato, Giuseppe Conte, si rischia di alimentare forme di tensione sociale e di rifiuto della politica in quei milioni di lavoratori poveri che l’Istat certifica in drastico aumento. Con quali esiti per la coesione sociale del Paese e per la tenuta del quadro democratico è difficile (ma anche preoccupante) immaginare oggi.