È un disegno di giustizia monitorata, prudente e col distanziamento sociale, quello approvato alla Camera. Per attaccare la magistratura è il momento ideale. Sotto il tavolo, la torta del Pnrr. Un piano scritto con inchiostro simpatico, ormai, perché l’economia di guerra – in realtà non lo è, ma la suggestione già fa effetto – distorce le scelte e le sottrae alla discussione. Sopra c’è la bandiera della riconversione ecologica – ma per ridurre la dipendenza energetica si va per le spicce: più carbone. Intorno al tavolo, i giocatori non vogliono che il controllo di legalità disturbi la spartizione e protegga i lavoratori, i risparmi, l’ambiente. Intanto l’Inail rende noto un aumento degli infortuni negli ultimi mesi.
Gli scandali da sbandierare non mancano – Palamara e hotel Champagne –, ma in mancanza si sarebbe trovato altro. Lotta alla corruzione e rule of law vanno bene come prodotti da esportazione, a casa il potere non fa lo schizzinoso. Ma vediamo il contenuto.
Si rimette mano al sistema elettorale del Consiglio superiore della magistratura: la procedura resta maggioritaria, è astrusa e non impedisce le cordate di potere.
Per il passaggio di funzioni tra giudice e pubblico ministero, c’è una strettoia così rigida da farne carriere diverse. Si può cambiare una sola volta, entro un limite temporale, oppure dopo, ma soltanto facendo di un pubblico ministero un giudice civile, o viceversa. Insomma, la mossa per cambiare casella c’è, ma è quella del cavallo. Significa spreco di esperienza professionale, e inconvenienti pagati da chi capita nelle mani dei pochi che cambieranno funzione (giudice e pubblico ministero non te li scegli): nei processi penali saranno accusati da esperti civilisti e, cosa peggiore, nei processi civili saranno frugati nei diritti patrimoniali, ereditari, familiari da inquirenti abituati ad avere accanto la polizia e di fronte i criminali.
Arriva il fascicolo per la valutazione del magistrato. È uno strumento insidioso per l’accorpamento di dati (l’ordine del discorso è già un discorso), per il conformismo suggerito dai rilievi di “grave anomalia” in relazione all’esito delle decisioni e per la raccolta di “ogni altro elemento richiesto ai fini della valutazione”. Sono cose in cui può nascondersi uno zelo occhiuto, lo spirito del dossieraggio. Certo, va escluso che il legislatore del 2022 abbia in mente i propositi rivendicati da quel ministro della Repubblica sociale italiana, nel giugno 1944: i magistrati sospetti “vennero sottoposti a diligentissime inchieste”. Eppure c’è un effetto di ammonimento. Per questo il comitato direttivo centrale dell’Associazione nazionale magistrati osserva che si torna a un “assetto precostituzionale”.
La novità va insieme alla partecipazione sostanziosa degli avvocati ai consigli giudiziari. Sono gli organismi coinvolti nella valutazione periodica; anni fa, la presenza degli avvocati era vista con favore da una parte della magistratura in nome dell’efficienza. Ma nelle nuove regole nulla impedisce che la posizione degli avvocati abbia per sottinteso casi pendenti (su crimini, sul lavoro, sull’inquinamento). I cittadini possono essere ostaggi della valutazione sul magistrato durante il processo; loro, imputati e parti lese, ma anche lavoro e ambiente, sono le vere vittime.
Il sistema che chiamano “porte girevoli” incide sul diritto di candidarsi in politica e sulle zone d’ombra per scambi di favori. Sui gruppi di potere non ci sono novità, e in fondo sono anni che la politica si serve di magistrati. Questo succede anche perché nel personale politico non mancano legulei grigi, paglietta provinciali usciti dalle pagine di un racconto verista, mentre le regole sono sempre più complesse, opinabili, incerte, intrecciate con la tecnologia, col diritto internazionale ed eurounitario. Quanto ai magistrati che fanno andirivieni con le poltrone, sono pochi, ma nell’insieme non si è saputo mettere un freno, si è ingoiato un boccone avvelenato e adesso è facile accusare tutti. Comunque, è grave il divieto di tornare alle attività giurisdizionali. C’è il sottinteso di un magistrato funzionario: una sedia al ministero è un diritto, un minimo sindacale; fare i processi è un accessorio. È come se un banchiere, dopo essere stato deputato – o magari, vedi un po’, presidente del Consiglio –, potesse tornare in banca, sì, ma solo allo sportello, con le mezze maniche, a timbrare assegni.
Il divieto per i magistrati uniti da vincoli familiari di lavorare nello stesso ufficio viene ridimensionato e reso più vago; questo conferma che non si vuole maggiore credibilità, ma solo ubbidienza e notabilato, compatibili con legami personali che sono ancora più imbarazzanti nei piccoli centri e negli ambienti ristretti. Vedremo se chi denuncia le “caste” avrà qualcosa da obiettare.
Per il resto, si è persa l’occasione per scelte buone. Per esempio, un intervento a fondo sugli incarichi retribuiti, quelli diversi dal lavoro nel proprio ufficio giudiziario. Nel nome dell’unità della giurisdizione, che pure è una tendenza positiva percepibile nella riforma, sarebbe ora di sottrarre tutti i magistrati, ordinari e speciali, a lavori redditizi estranei a quello nell’ufficio rivestito; al momento, solo per i magistrati ordinari ci sono limiti in più, che in parte non vengono dalla legge ma da disposizioni interne. Come ha detto il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Giuseppe Santalucia, i cittadini più deboli hanno bisogno di “un giudice che agisca senza timori e senza speranze di carriera”. Il condizionamento si combatte bene se si respingono le opportunità di una retribuzione maggiore e differenziata. La materia esige un principio generale, nell’interesse della società; ma a dispetto di dichiarazioni d’occasione, politica e toghe – ordinarie e soprattutto speciali – vanno d’accordo sul lasciare la possibilità di guadagni extra, a volte cospicui.
Si è persa l’occasione anche per restituire alla Corte dei conti l’autogoverno che merita: nel suo Consiglio di presidenza i magistrati elettivi erano la maggioranza dal 1988, ma nel 2009, in pieno regime berlusconiano, furono drasticamente ridotti a una minoranza. Poi Berlusconi cadde su questioni economiche, naufragando nel discredito internazionale. Adesso, nel clima del Pnrr, non viene ripristinata la piena indipendenza della magistratura contabile, che evidentemente potrebbe disturbare.
Nell’assemblea dell’Associazione nazionale magistrati del 30 aprile è stato deciso lo sciopero. Un passo grave, ma il momento è storico. Per il presidente dell’Associazione la riforma è quasi una “svolta costituzionale”, distante dallo spirito di una Carta conquistata dopo una passata “stagione tristissima” (per garbo non l’ha chiamata fascismo). Santalucia, preoccupato specialmente dai rischi di dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo, ha notato che da febbraio siamo ripiombati in un clima da anni Quaranta e che “le tragedie sono velocissime”. Anche un comunicato dell’Associazione europea dei giudici ha preso le distanze dalla riforma, assicurando che “supporterà i colleghi italiani nel difendersi da ogni possibile degrado del sistema giudiziario”.
Questa riforma non migliora la giustizia, non tutela i cittadini e vuole una magistratura esecutiva e corporativa. Sono i riflessi della situazione economica, le ombre cinesi del Pnrr e del clima bellico. Nel lungo periodo, si paga il prezzo del berlusconismo e del giustizialismo, entrati in politica togliendo spazio alla questione del lavoro e a quella dell’ambiente: alle due questioni, ormai intrecciate in grovigli che portano sull’orlo della distruzione, della negazione, della disumanità.