È pressoché una non notizia quella del prossimo rientro del gruppo denominato Articolo uno nella casa madre del Partito democratico. Il distacco da un Pd “renzizzato” era infatti avvenuto, perfino tardivamente, nel 2017; ma da quando Renzi si è fatto il suo partitino, non c’è più alcuna ragione, per gli ex dissidenti, di collocarsi in un contenitore diverso dal Pd. E apparirebbe anche piuttosto pretenzioso mirare a una generale rifondazione programmatica di un partito molto più grosso da parte di una formazione attualmente accreditata al 2%. Dunque, un puro e semplice ritorno all’ovile è nelle cose. E a volerlo presentare come il progetto di una “sinistra grande”, Roberto Speranza, rieletto pochi giorni fa alla guida del gruppo, dovrebbe preliminarmente fare un esame di coscienza intorno ai limiti di un’esperienza.
Che cosa non ha funzionato nell’alleanza politico-elettorale che, sotto il nome di Liberi e uguali, nel 2018, raccolse poco più del 3% dei voti? Forse il fatto di essere soltanto un accordo tra apparati, tutti ex qualcosa. Oltre ad Articolo uno, c’erano Sinistra italiana (mai nome fu più inadeguato alla cosa) – cioè una derivazione di Sel (Sinistra, ecologia e libertà), orfana di Vendola, che ha fatto un’altra scelta di vita – e Possibile, a sua volta un frammento staccatosi dal Pd. È probabilmente questa logica dell’assemblaggio che ha dimostrato di essere perdente. (In verità, non da ora, ma fin dagli anni Settanta del Novecento, quando a lungo si cercò di comporre in un mosaico alcune delle piccole forze sparse a sinistra del Pci, senza mai riuscire a concludere granché).
Ora, in un quadro politico caratterizzato da una bonaccia centrista – quella indotta dal governo di “unità nazionale” –, senza il minimo segnale di una radicalizzazione dell’elettorato del genere di quella vista recentemente in Francia, è del tutto plausibile che si punti a una riedizione del centrosinistra. Sarebbe tuttavia auspicabile una maggiore consapevolezza critica nelle forze, piccole o grandi, che si preparano – collegate tra loro non si sa ancora in quale forma – a presentarsi davanti al giudizio degli elettori nel 2023.
Il Pd, per parlare del partito più grande, dorme. È del tutto sdraiato sul governo Draghi – al punto che se questi non ci stesse più, in futuro, a togliere le castagne dal fuoco alla politica, quasi non saprebbe chi candidare a Palazzo Chigi. Enrico Letta, per dirne una, aveva avanzato l’idea di un aumento della – attualmente ridicola – imposizione fiscale sulle successioni, a favore dell’inserimento dei giovani nella vita sociale: ma sembra che abbia rapidamente archiviato la proposta dopo le critiche ricevute da destra. Anche sulla guerra – su cui molto ci sarebbe da dire, spingendo l’Europa a differenziarsi dagli Stati Uniti, pur nel comune sostegno all’Ucraina – il Pd non esprime una posizione sua, finendo così addirittura in contrasto con i 5 Stelle del pur sospirato alleato Conte.
Quest’ultimo, poi, non sembra essere ancora veramente riuscito a essere il leader di quella formazione post-populistica, sostanzialmente di centrosinistra, che andrebbe profilandosi. Non si capisce bene che cosa i 5 Stelle potranno essere in futuro. Si sa solo quello che non sono più: non sono più “anti-casta”, non sono più euroscettici, non sono più disposti ad alimentare qualsiasi agitazione qualunquistica (come quella “no vax”). Sono diventati un partito di governo, d’accordo, ma che cosa vorrebbero fare – a parte tirare a campare amministrando l’esistente – non è chiaro.
In questa situazione di stasi e di confusione, il contributo che potrebbero dare alla definizione di un nuovo centrosinistra Roberto Speranza e compagni sarebbe il benvenuto. Ma secondo quali idee? La proposta di una maggiore vicinanza alle esperienze politiche, al momento in corso, in Spagna e in Portogallo sarebbe un punto intorno a cui cercare di far convergere l’attenzione. Come pure non sarebbe male cominciare a offrire una sponda al cancelliere Scholz, che sulla guerra – anche per la particolare posizione della Germania – sembra l’unico in grado di staccarsi, almeno un po’, dal bellicismo dominante.