Fino a ieri pareva che nelle alte sfere della Russia tutte e tutti fossero d’accordo con le scelte di Putin, o almeno volevano farlo sembrare. Stando alle ultime dichiarazioni della governatrice della Banca centrale di quel Paese, non sembra che le cose stiano proprio così. Si dice che Elvira Nabiullina – la governatrice, appunto – avesse avuto l’intenzione di dimettersi dal suo alto incarico subito dopo l’invasione dell’Ucraina del 24 febbraio, ma che evidenti ragioni di opportunità politica l’abbiano dissuasa dal farlo. Com’è noto, cercare la verità in tempo di guerra è impresa proibitiva. Quello che pare ormai certo è che le sue opinioni sulle prospettive economico-finanziarie del Paese divergono sempre più da quelle di Putin e dell’ex presidente russo Dmitrij Medvedev.
Parlando alla Duma, la Camera bassa del parlamento russo, la Nabiullina avrebbe affermato, stando all’agenzia Tass, che le sanzioni adottate contro il suo Paese se in un primo momento hanno colpito essenzialmente il mercato finanziario, ora fanno sentire i loro effetti sull’economia reale. Il contrario della spavalderia mostrata da Putin, che parla del fallimento della strategia della guerra lampo economica contro la Russia, o da Medvedev che avverte che un default russo trascinerebbe nell’insolvenza l’intera Europa.
Per la Nabiullina – ed è questa la parte più importante del suo discorso, specialmente se ci fosse qualche forza in grado di raccoglierla nel suo Paese – le sanzioni imporrebbero cambiamenti strutturali nell’economia russa, modificando anche il suo “modello di business” con il resto del mondo. Al contrario, per Putin, il quadro economico si starebbe stabilizzando e il rublo tornerebbe ai livelli antecedenti al varco del confine ucraino. Lo scontro verterebbe, quindi, sull’efficacia delle sanzioni e sulle eventuali conseguenze trasformative del modello di sviluppo.
Woodrow Wilson, il ventottesimo presidente statunitense, verso la fine del primo conflitto mondiale definì le sanzioni economiche “peggiori della guerra”. Biden ha rilanciato lo stesso concetto, affermando che l’unica alternativa alle sanzioni sarebbe una terza guerra mondiale. Del resto gli Usa le hanno imposte ininterrottamente, e con particolare intensità dagli anni Novanta in poi, verso un numero sempre crescente di Paesi. Ma se l’interdipendenza economica ne moltiplica gli effetti allo stesso tempo li depotenzia, essendo la loro efficacia legata alla centralità dominante di chi le impone.
Ma gli Stati Uniti non si trovano più nella posizione di assoluti padroni del mondo. La Cina può attutire l’effetto sanzionatorio anche in campo finanziario, offrendo un sistema alternativo allo Swift; allo stesso tempo, la contromossa di Putin sul pagamento in rubli, anziché in dollari, delle esportazioni energetiche russe rende più arduo il tentativo di isolare l’economia e la moneta di quel Paese. L’ammonimento di Putin, nel summit virtuale con Biden del 7 dicembre scorso, che le banche russe avrebbero saputo aggirare le sanzioni era più che una boutade. In realtà la “guerra lampo” resta un mito, tanto sul terreno militare quanto su quello economico.
Sul più lungo periodo, però, le cose cambiano. Nabiullina ha avvertito che il tempo in cui l’economia può vivere sulle scorte è comunque limitato. Il protrarsi della guerra, sommato a una sindemia ancora non debellata, ci conduce nella situazione descritta recentemente da Kristalina Georgieva, direttrice del Fondo monetario internazionale, secondo cui 143 Paesi, pari all’86% del Pil mondiale, sono condannati a una crescita più bassa o a una recessione, con povertà e sottonutrizione che raggiungeranno nuovi record negativi.
La doppia crisi, sanitaria e bellica, che stiamo affrontando porta alla “forse più grave sfida al quadro di regole che ha governato il mondo per più di 75 anni”. Il riferimento agli accordi di Bretton Woods è esplicito. E infatti l’uscita da questa doppia crisi richiederebbe un appuntamento mondiale di quella portata, per ridisegnare un quadro di relazioni interamente stravolto.
Anche le previsioni della Banca d’Italia sono legate alla durata del conflitto. L’ultimo Bollettino disegna tre scenari ipotetici, nessuno dei quali allegro, ma certamente il peggiore, tutt’altro che improbabile, è quello in cui, anche a causa di un’interruzione dei flussi di gas russo, in presenza di un ritardo storico sulle rinnovabili, “il Pil diminuirebbe di quasi mezzo punto percentuale nel 2022 e nel 2023; l’inflazione si avvicinerebbe all’8% nel 2022 e scenderebbe al 2,3% l’anno successivo”.
A ciò, va aggiunto che l’inflazione acuisce le diseguaglianze, poiché morde di più sugli acquisti indispensabili dei ceti popolari. Appaiono quindi lunari quanto irresponsabili le resistenze di fronte a uno scostamento di bilancio probabilmente inevitabile, o le ipotesi di un nuovo patto concertativo per contenere le rivendicazioni salariali.
Se quindi guardiamo le cose anche dal punto di vista sociale ed economico, diventa ancora più evidente e urgente riannodare il filo della trattativa, dotarla di una mediazione internazionale autorevole – come sarebbe una seduta permanente dell’Onu, secondo quanto suggerito da Luigi Ferrajoli – per imporre il cessate il fuoco in Ucraina che invece l’invio di armi sempre più letali non fa che alimentare, trascinandoci verso il baratro non più impossibile di una nuova guerra mondiale nucleare.