Un soldato di religione ortodossa, ucraino, sotto assedio a Mariupol’, ha scritto al papa. Una lettera toccante, però anche inquietante. Perché non ha scritto al segretario generale dell’Onu? Probabilmente perché, come tutti, sa che l’Onu è una non realtà. Poco dopo, al papa ha scritto anche Lucia Annunziata, dalle colonne della “Stampa”. Di certo Annunziata ha ritenuto di esprimere idee di persone che non pongono la fede al centro del loro percorso. A maggior ragione, viene spontaneo domandarsi: e allora perché non rivolgersi al segretario generale dell’Onu, o al presidente del suo Paese di residenza? “Faccia qualcosa” – è questa la sostanza che emerge da entrambe le lettere. Quasi che ciò che ha fatto sia già sparito, con tutto quel che ne è seguito. E che cosa ha fatto? Ha semplicemente scelto di affidare la Croce, in occasione della tredicesima stazione della via crucis del venerdì santo, a una donna ucraina e a una donna russa. È quella, infatti, la stazione della deposizione dalla Croce. Apriti cielo!
La risposta più diffusa, giunta non solo dai Paesi più direttamente coinvolti, è stata: “Equipara il non equiparabile”. Oppure: “Mette sullo stesso piano il dolore della vittima e il dolore del carnefice”. Già, sullo stesso piano. Ma solo questa equiparazione scandalosa ha consentito a un volto russo di riconoscere il dolore ucraino, chiamato e definito come tale. Eppure di questo riconoscimento – che è negato dalla Russia e sta all’origine del conflitto – si è detto poco. E se il soldato ucraino non lo cita è comprensibile, perso com’è nell’agghiacciante realtà di Mariupol’. Ma questo accade anche perché i vertici delle Chiese ucraine non lo hanno fatto risuonare fin laggiù. Comprensibile. Meno comprensibile è il nostro sorvolare, bisognoso piuttosto di un papa Superman che va a fermare la guerra, o forse il diavolo, che lì si manifesta e ci tormenta.
Certo, Francesco è andato in Iraq, non proprio un posto tranquillo, e nella Repubblica centrafricana, nonostante le controindicazioni di ogni sicurezza; mentre per andare a Kiev, nei giorni scorsi, ci sarebbe stato il nulla osta. Certo, Francesco andrà nel Sud Sudan tra poco – e non sarà un viaggio di diporto. Ma lì il papa ha visto processi da incoraggiare, con audacia ma anche con speranza. Quelle ferite, tuttavia, in Occidente le abbiamo considerate di altri, pur pretendendo di governare il mondo, mentre la richiesta di sollevarsi davanti all’orrore, alle fosse comuni, allo stupro e alla pulizia etnici, diviene un bisogno insopprimibile che ci riguarda direttamente.
Prima, per esempio in Siria, dove gli stessi generali di oggi ordinavano la carneficina di Aleppo, non è stato così. In Sud Sudan non è così. In Congo, dove il papa si reca anche sulle orme di un ambasciatore italiano ucciso poco tempo fa, non è così. Lo scandalo è scandalo quando ci riguarda, quando mette in dubbio il nostro futuro in un modo che ci risulta chiaramente percettibile. Forse è qui uno dei motivi per cui l’Onu è finito nel nulla; e forse è qui il motivo per cui Giovanni Paolo II non poté, pur volendolo, andare a Sarajevo durante l’assedio. Il motivo che ostacola questi viaggi è in noi, nella nostra cultura, nei nostri orizzonti. Ora, impauriti, avremmo invece bisogno di un papa Superman.
Ma se la realtà cristiana di quelle terre martoriate non ha saputo recepire il messaggio del venerdì santo, cosa recepirebbe da un viaggio? Annunziata dice di aver sentito affermare che il papa potrebbe andare se andasse anche Kirill, il putinista che guida il patriarcato di Mosca. Penso invece che il viaggio si potrebbe fare se ognuno di noi cominciasse a farlo, questo viaggio, nel proprio personale universo.
Il papa è un uomo che guida una Chiesa che vive nella storia. A Kiev va se esiste un processo, o se è possibile avviare un processo. Chi è pronto a muoversi per partecipare a tale processo? La lettera di Annunziata evita di rispondere a questa domanda. Siamo pronti a cambiare noi stessi per partecipare al cambiamento degli altri? Siamo pronti a cercare di capire come dovremmo cambiare? O siamo solo dei giudici che possono rimuovere la loro indifferenza per tragedie assolutamente identiche a quelle in corso – perché troppo scomode, troppo lontane –, e che oggi hanno solo l’urgenza di giudicare? Pretenderemmo per giunta che il nostro sia un giudizio inappellabile? Ma ci interessa la sentenza o il cambiamento?
Per non restare nel vago, facciamo qualche esempio: siamo disponibili a riconoscere di avere sbagliato tutto con i profughi e i rifugiati, offrendo oggi ai non ucraini quel che abbiamo dato agli ucraini? Sarebbe troppo? Non rientra nelle nostre compatibilità economiche? Non rientra nelle nostre compatibilità culturali? Ed è così che vorremmo convincere il mondo che davvero proviamo orrore per le fosse comuni? Dopo Sarajevo, dopo Aleppo, dopo lo Yemen? Questo cambiamento ci direbbe perché tanta parte del mondo sta voltando le spalle all’Occidente. Ecco perché molti Paesi non ci seguono, interessati alla cooperazione con Pechino più che con Mosca.
Se il papa andrà o non andrà a Kiev, dipenderà anche da noi, non solo da lui. E se lo farà sarà perché un processo si è dimostrato possibile, mentre la sua invocazione “ferma la mano che si leva contro il fratello”, è passata quasi inosservata. Seguitando così, chi potrà mai credere all’indignazione?