“Terzogiornale”, nato per parlare di “poche cose”, deve oggi occuparsi di ciò di cui mai avrebbe voluto occuparsi: la scomparsa dell’amico e compagno Aldo Garzia, vera risorsa generatrice, poco più di un anno fa, di questa impresa, che senza di lui mai sarebbe stata possibile. Aldo era nato a Imperia nel 1953 (con qualche civetteria, preferiva dire di essere nato nel 1954, dopo che su una sua pubblicazione avevano sbagliato l’anno di nascita). Da giovanissimo si era trasferito a Roma, diventando un militante del gruppo politico del Manifesto – oltre che, appena diciottenne, un collaboratore del quotidiano – e in seguito, per un periodo, un esponente del piccolo Partito di unità proletaria. La sua vicenda di giornalista non si era svolta tutta nel “manifesto”, di cui pure fu magna pars, ma anche nella partecipazione ad alcune altre testate, come “Pace e guerra”, e nella direzione, tra gli anni Novanta e i Duemila, della rivista “Aprile”, un periodico vicino a quella che era allora la “sinistra” dei Democratici di sinistra. Ci furono inoltre un suo momento “verde”, come direttore di “Terra”, e una non breve attività di cronista politico-parlamentare per l’agenzia Asca. Già così sarebbe una biografia intellettuale di tutto rispetto. Ma Aldo non fu solo questo: fu un saggista impegnato a scandagliare l’esperienza rivoluzionaria di Cuba – con un affetto che non è mai venuto meno, però anche senza dogmatismi, muovendo tutte le critiche che riteneva necessario muovere –, e poi, soprattutto a partire dalla fine degli anni Novanta, uno studioso della storia della socialdemocrazia europea nel secondo dopoguerra, in particolare di quella svedese (a Palme dedicò un libro, pubblicato dagli Editori Riunti), ma anche di quella tedesca di Brandt (su cui meditava di scrivere un altro libro), o del “socialismo dei cittadini” dello spagnolo Zapatero (con il quale realizzò una lunga intervista edita da Feltrinelli). Infine, la passione di Aldo per il cinema di Ingmar Bergman si espresse in un volume su di lui, intitolato semplicemente Bergman. The Genius (ancora Editori Riuniti).
Senza di lui, “terzogiornale” sarà un’altra cosa, ma non verranno meno – di ciò i nostri lettori possono essere certi – né l’impegno “selettivo” riguardo agli argomenti da trattare, né l’ispirazione di fondo con cui siamo nati: quella di porre definitivamente fuori corso una divaricazione storica, oggi insensata più di quanto non lo fosse ieri, tra il “comunismo” – in particolare nella sua versione gramsciana – e il “socialismo”, comprendendo sotto questo termine non soltanto le socialdemocrazie storiche, ma anche e soprattutto quelle prospettive di socialismo libertario basato sull’autogestione, sempre perdenti nel Novecento, eppure tanto più illuminanti quanto più si prenda coscienza del fatto che non si può seguitare nel mondo contemporaneo con le ricette puramente centraliste del passato. Accanto a ciò, la consapevolezza della crisi ecologica, sempre più drammatica; e ancora il richiamo a una politica che dovrebbe cercare di coniugare – mentre colpevolmente non lo fa – l’utopia con il realismo. La parola con cui Aldo concludeva il suo ultimo editoriale su questo sito, il 29 marzo scorso, era questa: “sperare”.
Di seguito alcuni ricordi
Caro Aldo, difficile trovare le parole per raccontare cosa hai rappresentato per la mia vita affettiva, culturale, politica e anche lavorativa. Quando si tratta di scrivere di qualcuno che ha occupato un posto davvero importante nella propria vita, qualsiasi cosa si dica sembra troppo scarna, riduttiva, banale. La morte era un tema di cui parlavamo, riferito a chi negli ultimi anni ci ha lasciati, con una tristezza accompagnata da quell’angoscia che non ti lasciava per giorni. Ora tocca a me parlare di te. Con una sola parola, posso dire che sei stato il mio mentore. La persona il cui parere faceva la differenza, arricchendomi di una visione del mondo lucida, critica e “umana”. Sotto alcuni aspetti, quali la totale affidabilità, la puntualità, la serietà e onestà intellettuale eri un uomo d’altri tempi. Ti apprezzavo molto anche per questo. Ma il sentimento più forte che ci ha legati è stata l’amicizia. Un’amicizia nata una trentina di anni fa al “manifesto”, quello che chiamavo “l’isoletta felice”, e da cui entrambi ci sganciammo più o meno nello stesso periodo. Un’amicizia che è continuata con collaborazioni strettissime, viaggi importanti, un dialogo serrato che ci vedeva tutti i giorni “sul pezzo” in redazione, o a pranzo insieme. Hai partecipato alle mie gioie e ai miei dispiaceri, ero un’ospite fissa nella tua casa romana, ho addirittura cominciato ad amare visceralmente il Testaccio, solo perché mi hai “convinta” di quanto fosse un luogo interessante e pieno di umanità. Era impossibile non partecipare delle tue passioni viscerali, perché sapevi esprimerle con intelligenza e acutezza, sostenute da una grande preparazione. Non so quanti dischi di Gino Paoli abbiamo ascoltato insieme, perfino analizzando i testi minuziosamente, quanti film di Bergman, di Truffaut, di Rohmer mi hai prestato e regalato, quanta musica cubana ci ha divertiti. E poi la passione politica, che non ti ha mai abbandonato, neanche quando, dopo la malattia iniziata nel 2014, riprendevi faticosamente una vita “normale”. Mi ha sempre profondamente colpito la tua capacità di dedizione e di concentrazione sulle tue passioni. Credo che avessi una marcia in più. Non ho mai conosciuto, infatti, chi avesse la tua stessa capacità di ricordare tutto ciò che ti interessava, a distanza di tanti anni, e con dovizia di particolari. Eri la “memoria storica” di tanti di noi.
Ligio al dovere e instancabile lavoratore, riuscivi a sfruttare al meglio il tuo tempo. Nella tua giornata riuscivi a incastrare gli innumerevoli impegni intellettuali e amicali alla perfezione. Avevi un ottimo sistema di gestione del tempo. Tra gli ultimi ricordi, rimarranno scolpite le tante serate nel tuo studio, dove tanti di noi si sono riavvicinati o addirittura conosciuti, per quel tuo amore verso la “contaminazione”, il mettere in contatto fra di loro amici di mondi diversi per uno scambio di visioni, da cui a volte scaturivano nuove relazioni o collaborazioni. Mi mancherà la tua ironia, la tua intelligenza, il tuo candido “parteggiare” per tutti i tuoi amici, sempre. (Manuela Bianchi)
Scrivere di un amico che non c’è più è uno degli esercizi più difficili anche per i giornalisti. Anzi forse per chi esercita questa professione è perfino più difficile perché siamo abituati a scrivere con un certo distacco nel mito di un’oggettività che non esiste. Quando invece ci sono i sentimenti di mezzo risulta complicato dire qualcosa che non sia retorica. Conoscevo Aldo da tanti anni, da quando cominciai a frequentare il “manifesto” nella sede storica di via Tomacelli. Eravamo giovani baldanzosi pronti a cambiare il mondo. Negli anni Ottanta io ero ancora inesperto e alla ricerca di una misura, lui – seppure poco più grande – già più navigato. Ricordo tante riunioni di redazione, tantissimi suoi interventi alle assemblee e ovviamente i suoi articoli e i suoi libri.
Ammiravo soprattutto la sua vasta cultura e i suoi strumenti raffinati applicati alla professione. Aldo non era uno dei tanti giornalisti e non era classificabile neppure tra gli esperti di una determinata disciplina (quelli che invitano nei talk show) perché i suoi interessi politici e culturali spaziavano dall’amore per Cuba e per l’America latina all’interesse intenso per le esperienze socialdemocratiche più avanzate in Europa: da Che Guevara a Olof Palme. Ma il lato del carattere che mi ha sempre colpito era quello legato alla sua capacità di andare oltre la notizia per cercare di analizzarne i fenomeni di fondo, soprattutto nello spazio della politica, con un piglio disincantato e critico che agli occhi di chi non lo conosceva poteva apparire cinica freddezza.
Ricordo con affetto ed emozione le sue battute sui miei primi interventi in assemblea al “manifesto”. I suoi commenti erano immancabili, un appuntamento fisso. Qualche volta si spingeva fino a dirmi che pur non avendo condiviso quasi nulla del mio intervento dal punto di vista politico, ne apprezzava almeno la lucidità nell’esposizione. Piccole grandi soddisfazioni. Devo infine ringraziarlo per avermi fatto conoscere il “terzogiornale”, la sua ultima esperienza giornalistica. Buon viaggio Aldo. (Paolo Andruccioli)
Ho faticato a rintracciare nella mia memoria il momento in cui ho conosciuto Aldo Garzia. Di persona, perché in realtà, essendo stato in gioventù un lettore del “manifesto”, fu per anni un punto di riferimento per le sue qualità di chiarezza e al tempo stesso profondità di analisi. Ci saremo incontrati negli anni Novanta, quando ancora le sinistre italiane, ancorché divise a volte da astiose rivalità, si frequentavano e si parlavano, nei giornali, nelle case editrici, negli eventi politici, con un qualche reciproco sforzo di comprensione (ma anche modestissimi risultati, invece – a voler essere generosi – nell’azione politica). Di certo, ci siamo frequentati in parlamento, per via del comune mestiere, negli anni Duemila. La mia non è una esperienza unica: parlando in queste ore con alcuni colleghi giornalisti, anche lontani da Aldo per storia e cultura politica, ho riascoltato, nei loro ricordi, i miei. Quelli di un collega di esperienza infinita, cultura sconfinata, fine ironia, rispetto profondo nei confronti di ogni interlocutore, anche i più giovani e meno titolati, soprattutto grandissima curiosità nei confronti dei fatti della politica. Dei fatti nuovi, congressi e manifestazioni, alleanze e scissioni o nuove aggregazioni, era sempre pronto a studiare le cause e a immaginare le possibili evoluzioni, senza farsi trascinare dal pregiudizio ma senza rinunciare al giudizio. Dalla sua famiglia politica di origine, i comunisti extra-Pci del Manifesto e del Pdup, aveva ereditato il fuoco di una passione politica inesauribile, che neppure i terribili guai fisici avevano spento, il rigore analitico e un pizzico di politicismo che lo portava a volte a un ottimismo non sempre ben riposto nei confronti di qualche vicenda politica della sinistra socialista, movimentista o postcomunista; in compenso, si è sempre, per tutta la vita, dimostrato scevro dalla spocchia che talvolta, scimmiottando qualche leader di ben altro spessore, alcuni suoi ex compagni ostentavano. In un’epoca nella quale il modello ispiratore del dibattito politico e giornalistico è il bullismo televisivo alla Sgarbi con qualche sconfinamento in una moderna riedizione mediatica dello squadrismo di infausta memoria, Aldo spicca, con tutto il suo modo di essere, come una personalità di valore inestimabile, che non potevamo permetterci di perdere, e invece siamo qui a piangere. Devo a lui l’onore della chiamata per condividere l’avventura di “terzogiornale”. Pago questo debito con le parole, rubate da Facebook, di un amico comune, caro a entrambi: “Un grande intellettuale, dagli interessi molteplici, dallo spirito critico connaturato alla sua formazione comunista ‘eretica’, un gigante a molti sconosciuto tra tanti conosciutissimi gnomi del circo culturale italiano”. (Paolo Barbieri)
Caro Aldo, questo scherzo non ce lo dovevi fare. Lo sai che ci mancherai? Che mancherai a un pezzo importante e combattivo di questo nostro complicato mondo al quale tu hai dato il meglio di te? Comunque non ti preoccupare. Noi ci saremo portandoti sempre nel cuore, ricordando l’amico, il compagno di tante battaglie e la tua simpatia e gentilezza. Fin da giovanissimo, vicino anch’io all’esperienza Manifesto/Pdup, leggevo e apprezzavo i tuoi pezzi e ti consideravo, malgrado fossimo coetanei, un maestro della politica e del giornalismo. Abbiamo affiancato Luciana Castellina quando era alla direzione di “Liberazione” in una delle tante battaglie politiche che la sinistra al suo interno si è trovata spesso a combattere. Le vicende della vita ci hanno poi allontanato di nuovo per poi farci ritrovare. Ho conosciuto così la tua casa pieni di libri, le tue passioni che andavano ben oltre la politica e il tuo quartiere dove eri un punto di riferimento per tanti. Solo un mese fa il nostro primo e purtroppo ultimo caffè nel mitico bar Giolitti, quasi una tua seconda casa e luogo di discussione. Che dirti di più, caro Aldo? Che ti ho voluto bene, che avrei voluto frequentarti di più e che resterai un pezzo importante della mia vita piena di speranze come è stata la tua. (Vittorio Bonanni)
La mia conoscenza di Aldo risale agli anni Settanta, lui del Manifesto-Pdup, collaboratore di Lucio Magri, mentre io ero un sindacalista, militante di Democrazia proletaria. All’epoca quasi due pianeti diversi sia pure dello stesso sistema solare. Ci siamo poi rivisti quando prese la direzione del settimanale “Aprile”, organo dei Comunisti unitari. Lui scriveva di grande politica, io più modestamente di lavoro, welfare, finanza pubblica. All’epoca, ci vedevamo quasi quotidianamente a Montecitorio dove veniva per il suo compito di commentatore parlamentare e dove io ero consulente legislativo, da diversi anni, per i vari gruppi di sinistra di volta in volta succedutisi. Nella nostra frequentazione personale ho sempre ammirato l’ampiezza dei suoi interessi, dalla musica al cinema, da Cuba alla Svezia. Mi ricordo una cena a base di stufato di renna nell’unico club svedese di Roma in occasione di una mostra di sue bellissime fotografie scattate nell’isola di Fårö, l’isola di Ingmar Bergman, sua passione di cinefilo, dove spesso soggiornava. La serata fu allietata da una signora che recitava una poesia in lappone, man mano tradotta in inglese e successivamente in italiano. Uno spasso. Notevoli le sue biografie su Zapatero e Olof Palme, due leader quasi agli antipodi delle socialdemocrazie europee. Lo coinvolsi due anni fa, in pieno lockdown, per parlare del ’68, del Pci di Berlinguer, dell’esperienza del Manifesto, a una decina di giovani che partecipavano a un gruppo di studio sulla storia recente della disastrata sinistra italiana. Ci incontravamo ogni tanto per qualche serata nelle pizzerie sotto casa sua, ovviamente a Testaccio. D’altronde era l’anima riconosciuta del “politburo” del quartiere che si riuniva con una certa regolarità per fare colazione nello storico bar Giolitti. Qui, per ricordarlo, vi invito a prendere un altro cappuccino. (Sandro De Toni)
Volevo scrivergli, e poi non l’ho più fatto: “Caro Aldo, perché Catherine Deneuve la chiami Caterina Denova?”. Su Facebook, insieme a tante altre immagini, ogni tanto pubblicava queste foto di grandi attrici e cantanti dei nostri tempi: Jane Fonda, Jacqueline Bisset, Fanny Ardant, Brigitte Bardot e – appunto – Caterina Denova. Era un gioco e un omaggio alla bellezza, e al grande cinema, e alla grande canzone. Un omaggio a quello che noi tutti eravamo, o eravamo stati nella nostra spensierata-pensierosa gioventù. E sempre a suo modo: pacato, nella sua disarmata ironia.
Per dire: insieme alle immagini di queste bellissime donne pubblicava anche splendide foto di Che Guevara e Fidel Castro. Cuba, il grande, straordinario amore di una vita. Perché lo accompagnava sempre la passione, e la passione viaggia spesso per vie nascoste, sotterranee. Dalle tempeste tropicali all’aurora boreale il salto è lungo, ma Aldo lo praticava con grazia e leggerezza: i barbudos e Ingmar Bergman, la Sierra Maestra e l’isola di Fårö, Camilo e Olof Palme. Un ardito giro del mondo accompagnato dalla passione e dalla conoscenza.
Perché Aldo conosceva, leggeva, sapeva. Alla vigilia del mio ultimo viaggio all’Avana per il Tg3, mi regalò un breve libretto su Cuba che funzionò come uno scrigno di notizie e riflessioni, una guida e uno stradario sentimentale dentro i labirinti di un Paese contraddittorio, sempre amato e quante volte detestato per amore.
Non ci conoscevamo, eppure ci riconoscevamo, io e Aldo. Veniamo da due costellazioni diverse: lui il “manifesto”, io “l’Unità”, lui prossimo di tutta una generazione di straordinari eretici, io a galleggiare fuori e dentro un partito labirintico, una ex-chiesa affollata di nomi diversi e di contraddizioni laceranti. Non ci conoscevamo, ma ho di lui un ricordo nitido e leggero. Lo rivedo a un convegno della Fondazione Basso: discorsi, discorsi e discorsi. Uscimmo fuori perché lui voleva fumare. Davanti al portone di legno, nella tiepida giornata primaverile, non so di cosa parlammo, ma lui aveva quel modo di dire pacato, quel guardare da dietro gli occhiali, quella timidezza che combatteva con la precisione del riflettere.
Ora che ci penso è l’ultima volta che l’ho visto, prima, molto prima della malattia. Direte: come puoi dire che lo conoscevi? È vero, ma in lui conoscevo un’umanità che me lo rendeva prossimo, e questo mi basta. Aldo ha avuto poco dalla vita, e alla vita ha dato molto. Ma forse non è vero nemmeno questo. La pienezza di un’esistenza non si calcola con il misurino del dare e dell’avere. Aldo ci sta nel cuore – mi sta nel cuore – e questo è quello che conta. (Flavio Fusi)
Aldo stupiva per la poliedricità dei suoi interessi, diversissimi e sempre coltivati con profondità di analisi. Mi soffermo solo su uno di essi, quel filo fortissimo che lo legava a Cuba. Proprio su Cuba ebbi modo di intervistarlo poco dopo la sua malattia nell’imminenza della visita di Barack Obama all’Avana. Allora lo impegnai in un percorso che dal cinema, dalla letteratura e dalla musica, era teso a mettere in luce le contraddizioni e le problematiche dell’isola alla vigilia di una svolta epocale nei rapporti con gli Stati Uniti che sembrava a portata di mano. Com’è noto, quella svolta alla fine non ci fu, e i problemi di Cuba, anziché avviarsi a soluzione, si sono acuiti.
Accanto all’emozione, da entrambi condivisa, con cui vennero allora ricordati film, scrittori e canzoni che nel tempo hanno fatto la storia di Cuba e contribuito al suo consolidarsi nell’immaginario collettivo progressista mondiale, emerse allora e si impose l’approccio lucido di Aldo, quel suo non rinunciare a essere in primo luogo cronista rispettoso della realtà, laddove sostenne, e lo cito, “che è del tutto evidente che Cuba si deve aprire. Deve diventare plurale. O Cuba diventa un bunker, o si apre al dialogo”.
A distanza di anni, nell’ultima occasione in cui avemmo modo di dibattere nel nostro incontro mensile organizzato da Marco Cantarelli in “Latinoamericana”, Aldo scelse di parlare dei sessanta anni di blocco statunitense nei confronti dell’isola, una mostruosità unica al mondo. Rifacendo la storia del bloqueo e venendo ai nostri giorni, si dimostrò preoccupato per la dura repressione con cui il governo cubano aveva risposto alle manifestazioni dell’11 luglio 2021, tutto il contrario di quel dialogo e quella apertura che vedeva necessari.
Tanto più, probabilmente, alla luce della riflessione che andava facendo su quella nuova sinistra, che con felice intuizione aveva definito “meticcia”, che in Cile riproponeva con forza la coesistenza dell’equità sociale con la democrazia. Aldo quotidianamente ci faceva dono su Facebook e Instagram di foto dei suoi amori, dai divi e dive del cinema, ai Beatles, a Lucio Dalla, a Pasolini, fino alle immagini storiche dei protagonisti della rivoluzione cubana e della stessa Avana. Un giorno pubblicò una foto del Malecón lasciandosi andare a un commento: “Che nostalgia!”. Ecco, Aldo era questo, lucida analisi e amore profondo costituivano le due facce di quel suo legame leale e inscindibile con l’isola. (Claudio Madricardo)
Aldo per me è stato un grande “editore di persone”, e io, opportunisticamente, lo usavo come cannocchiale a sinistra. Lo conobbi cinquantuno anni fa, in quella caotica ma esaltante vigilia dell’uscita del “manifesto” quotidiano, quando a Roma si raccoglievano i volontari. Mi scelse, come usava fare, dopo un intenso e istintivo esame. Venivo da Milano, una piazza poco “manifestina”. Ma ci trovammo subito in quella sintonia telepatica che ci accompagnò per mezzo secolo. La coincidenza di essere nati nello stesso giorno e mese, il 17 maggio, ci sembrò il segnale di un sodalizio inossidabile. L’editore di persone cominciò subito a usarmi mettendomi in connessione con i suoi giri per parlare del caso ambrosiano – e a farsi usare, introducendomi in quel labirinto che già era “il manifesto”.
La nostra coincidente passione per Lucio Magri cementò ulteriormente la coppia. Da allora non ci siamo più lasciati. Lui era tutto quello che mancava a me: solidità, cultura, letture ad ampio raggio, interessi diversificati, rigore e pacatezza nel ragionamento, ma mai senza la scossa di un’emotività politica forte. Io aggiungevo alla coppia una vertigine di velocità, e qualche venatura più ironica, che la mia origine partenopea mi concedeva, rispetto al duro terrazzamento della vita, a cui i liguri di ponente, com’era lui, non sono avvezzi.
Perderlo significa rimanere privo di connessione con una ramificazione del mondo, che segue insieme ragione ed estetica. Significa non avere un approdo per le mie temerarie conclusioni su una sinistra “senza algoritmi”, a cui lui dava la placida sicurezza di un solido contesto marxista. Soprattutto significa perdere quel gusto di avere il mondo sotto gli occhi, mentre, imbrogliandoci reciprocamente, ci trovavamo – ognuno per suo conto, dopo aver rassicurato l’altro – a seguire la necessaria dieta, con la testa nella coppa di quell’inarrivabile zabaione che offre ancora Giolitti a Testaccio. Anche quel piacere, senza Aldo, sarà più amaro e soprattutto più solitario. (Michele Mezza)
Ho conosciuto di persona Aldo Garzia solo nell’ultimo periodo della sua vita, nel breve scorcio che ci ha visti entrambi coinvolti nell’avventura intellettuale di “terzogiornale”. Prima c’erano stati solo, molti anni addietro, i suoi articoli, che leggevo sempre con interesse sul “manifesto”. Di lui mi colpirono subito alcuni tratti: la passione con cui viveva la sua attività di giornalista e la enorme conoscenza del mondo della politica italiana, di cui aveva incontrato e conosciuto buona parte degli esponenti più significativi, in particolare per quel che riguardava la sinistra. Aldo era una sorta di piccola enciclopedia vivente di fatti, persone, aneddoti, che rievocava con intatta memoria a distanza di decenni. Ma non era un chiacchierone o un uomo leggero, tutt’altro, c’erano in lui una serietà e una compostezza ormai d’altri tempi, che emergevano ogni volta che si discuteva di cose importanti. In questi casi la sua sorniona e dissacrante ironia passava in secondo piano, lasciando il posto alla preoccupazione e alla consapevolezza di svolgere un compito, di avere una “missione”. Sapeva essere intransigente e polemico, come compresi subito fin dalle prime riunioni di redazione di “terzogiornale”, spesso animate fino ad accendersi improvvisamente in diverbi e contrasti anche aspri, e che a volte mi sorprendevano per la loro virulenza, discussioni e contese cui Aldo non si sottraeva.
C’era simpatia tra noi, pure così diversi per età, formazione e storia politica.
Dopo una piccola polemica che avevamo avuto, aveva gradito una citazione autobiografica di André Gunder Franck che gli avevo mandato, in cui il sociologo tedesco ricordava esservi due rami del marxismo, uno riformista e uno rivoluzionario, e spiegava che egli si era nel corso della sua esistenza “appollaiato ora sull’uno ora sull’altro ramo”. Mi piace pensare che in qualche modo, forse, si fosse riconosciuto nella citazione.
Quando poi, tra una quarantena e l’altra cominciai a venire qualche volta a Roma per le riunioni, divenne quasi un rito dopo pranzo il rum in casa sua e la chiacchierata entre nous, e potei così avere modo di apprezzare la varietà dei suoi interessi culturali. Ho qui sul tavolo un vecchio volume Einaudi sui film di Bergman che avevo comprato per regalarglielo, dopo aver scoperto il suo penchant di appassionato cinefilo bergmaniano. Rimane in me vivo il ricordo di un uomo che, pur avendo voluto rimanere fino in fondo totus politicus come molti della sua generazione, riusciva a essere al tempo stesso anche totus humanus. Addio Aldo! (Agostino Petrillo)
Ho conosciuto Aldo Garzia personalmente quando era direttore di “Aprile”, giornale per il quale mi fece scrivere e che dirigeva con la passione che ha animato la sua e qualche altra generazione di militanti politici. Ma Aldo non si accomodava mai: come aveva lasciato prima il “manifesto” lasciò “Aprile”, delusissimo da Sergio Cofferati, promessa di nuove future battaglie socialiste e poi immensa delusione. Le parole che lo descrivono più di tutte sono quelle che mi disse Stefano Chiarini, suo compagno di strada nel giornale di via Tomacelli e anche lui scomparso prematuramente: Stefano mi disse che Aldo era la persona più limpida che avesse mai conosciuto. Quando Stefano se ne andò, ricordo che al saluto collettivo mi sedetti accanto ad Aldo e glielo dissi. Mi sorrise, non era esente dall’autocompiacimento ma era lontanissimo dal fanatismo che anima tanti altri meno colti, meno appassionati, meno sinceri di quanto non sia stato lui. (Stefania Limiti)
È doloroso declinare i verbi del ricordo pensando ad Aldo Garzia: dire lo ricordo al Testaccio nelle tante occasioni in cui andavo a trovarlo, dire lo ricordo a Cuba nei viaggi che facemmo insieme alla ricerca della diversità cubana. Eppure ecco: l’ultimo ricordo che ho di lui è a Rimini, in occasione del seminario su Lucio Magri, attento lucido e preciso come sempre, ma ancora entusiasta e pieno di progetti. Lo rivedo al tavolo del dibattito con Luciana Castellina, che di lui ha scritto parole così vere sul “manifesto”, mentre articolava quei suoi pensieri mai scontati, sempre attenti alla complessità delle cose.
Ma voglio qui ricordare un aspetto di Aldo Garzia che tanti suoi compagni e amici non conoscono, un legame stretto con una parte della Liguria e un progetto di cui è stato ideatore, promotore e infaticabile attore, anche da lontano, anche dal vivo del suo impegno di giornalista. Penso a Palomar. Quaderni di Portovenere, un quadrimestrale che lui ideò e diresse per cinque anni con un gruppo di amici pisani, spezzini e non solo. Franco Astengo ha ricordato le radici di Aldo nel Ponente ligure, in quei luoghi cui negli ultimi anni mi era spesso capitato di accompagnarlo, ma è nel Levante, su quello che chiamavamo il golfo delle meraviglie, che prese corpo un progetto audace e forse provocatorio ma anche uno stimolo e un impulso a fare i conti con la terra delle sue origini e con quell’impasto di marginalità e bellezza che la caratterizza. Fu Aldo a fare di quella marginalità un centro di irradiazione per “trame e relazioni del pensare”, così proclamava la rivista, assumendo Porto Venere a punto di riferimento per uno sguardo sul mondo.
“Di fronte a un mondo che non si lascia più semplificare, occorre ricostruire gesti, linguaggi, idee, scrutando con occhi nuovi ciò che ci circonda”. Con queste parole, nell’editoriale di presentazione del primo numero della primavera del 1986, Aldo sintetizzava lo scopo della rivista. Ne uscirono, a fatica, sei numeri nell’arco di cinque anni, ma l’attenzione e l’interesse non mancarono, grazie all’intuizione forte di costruire ogni numero intorno a una conversazione con un autore il cui pensiero ci pareva in linea con quell’intendimento: Daniele del Giudice per primo, poi Pietro Ingrao, Claudio Napoleoni, Emanuele Severino, Claudio Magris, Claude Chabrol. Aldo volle che le conversazioni dessero vita a confronti ampi e approfonditi, rifuggendo da ogni semplificazione: un autentico corpo a corpo con la persona che si aveva di fronte. Il nome stesso delle rubriche che costituivano ogni numero era frutto di questa visione a trecentosessanta gradi che ritenevamo dovesse caratterizzare la rivista: l’anello di Moebius, immagini di esistenza, laboratorio Liguria le principali.
Storici, filosofi, poeti, architetti, archeologi, fisici si incontravano a Porto Venere in riunioni di redazione vivaci e animate, che solo Aldo poteva padroneggiare e far confluire su punti condivisi.
Arrivammo ad avere millecinquecento abbonati: quando venne a mancare il sostegno pubblico da parte della Regione e del Comune, Aldo ritenne che non vi fossero più le condizioni per proseguire con quella libertà e varietà di approcci e interessi che ci aveva contraddistinto sin dall’inizio di quella bella avventura.
Dunque il ricordo di Aldo, dalla vecchia redazione di via Tomacelli sino all’ultima volta a Rimini, abita pure quest’angolo di Liguria che lui imparò ad amare e in cui tornava spesso. (Gian Luigi Saraceni)
Mi sarebbe piaciuto ricordarmi di Aldo quando era con noi, più di quanto lo abbia fatto. Mi sarebbe piaciuto parlargli di lui, della nostra amicizia, del suo significato per me, quando era a Testaccio, a poca distanza da dove abito. Eppure tante volte non l’ho chiamato, non gli ho parlato, non gli ho chiesto, non gli ho detto. Mi dispiace pensare oggi che non posso più chiedergli come stia, come vada la sua deambulazione, e il mangiare, se gli pesi tanto dover stare attento a tutto quello che fa. Per me Aldo è sempre stato importante, gli ho voluto bene quando ci conoscemmo al suo “manifesto”, poi quando fece altre esperienze. La differenza impaurisce molti, come si può negarlo. Alle volte avrà impaurito anche me. Ma con Aldo sentivo che la differenza, come vorrei che fosse sempre, mi interessava, avevo bisogno di quella sua diversità da me.
Luterano… Quanto gli piaceva ricordarmi questa sua attrazione per il protestantesimo e parlarmi di fede, a me che non ne ho, ma seguo papa Francesco per attrazione più che per professione. Credo che ci fosse un qualcosa del genere anche in lui. Aldo non riteneva, al contrario di tanti, che finalmente avessimo un papa che la pensasse come noi, ma apprezzava che sapesse parlare come noi, usando il nostro stesso linguaggio. Noi chi? Non appartenevamo allo stesso “noi” io e Aldo, ma lui non mi ha fatto sentire neanche una volta di ritenere il mio un “noi” inferiore al suo. Era un altro, e molto spesso lo sentivo attratto da alcune “nostre” cose, e questo mi attraeva maggiormente verso le “sue”.
Ma noi siamo “noi”. Lui era irresistibilmente attratto dall’idea di tenere la casa del suo tempo nel passato, in quel suo mondo a cui apparteneva, eppure era sempre proteso in avanti, come se la casa del suo tempo fosse anche in questo tempo, e quindi nel prossimo, in questo nostro presente dove viviamo sulla soglia del domani, da capire, immaginare, cambiare.
Il ricordo più bello di tanti ricordi è la gioia con cui aderì ed elaborò l’idea di organizzare un incontro con Saad Kiwan, suo vecchio collega del “manifesto” ora tornato in Libano, e Maurizio Matteuzzi. Sapevo che Saad sarebbe stato a Roma per pochissimi giorni e avrebbe desiderato vederli entrambi. Ma come? “Lo porti a cena qui sotto e noi ci faremo trovare lì. Penso io a contattare Maurizio, non dire nulla a Saad”. Vederli felici di ritrovarsi è stato più importante di trovarli concordi, e Aldo è riuscito a farmi sentire importante con quella semplice idea.
Aveva su di me l’effetto di un calmante: avevo più tempo con lui. Più tempo per dire e più tempo per sentire, per domandarmi e per domandare, per dissentire e per poi capire diversamente. Ma non ho avuto abbastanza tempo per dirmi che il tempo andava usato per andare a trovarlo e domandargli: “Come va? Tu lo sai che sei importante per me?”
Ci siamo incontrati e ritrovati dopo tempo, tantissime volte, ma ogni volta era come se quella parentesi non ci fosse stata. Il discorso con Aldo si riprendeva quasi ricordando il momento in cui lo avevamo lasciato cadere. Per me continuerà a essere così. (Riccardo Cristiano)
Nella foto: Aldo Garzia da giovane