Strada facendo, la guerra ha cambiato la propria natura. Nata da una contesa intorno a una zona di confine tra un pugno di nazionalisti da una parte e dall’altra (qualcosa di facilmente risolvibile, se non si fosse trattato dell’ultimo capitolo della dissoluzione di un impero, mediante un trattato internazionale che garantisse le minoranze), con l’invasione russa dell’Ucraina, è precipitata in una crisi regionale e mondiale, diventando un po’ alla volta un redde rationem tra la democrazia occidentale e la cosiddetta autocrazia putiniana. “Ogni tempo ha la sua peste” – avrebbe detto Karl Kraus; ma a noi è toccato di averne addirittura due: la pandemia e la guerra.
La vicenda bellica che opprime i nostri giorni, tuttavia, non è affatto da considerare come un confronto tra il mondo occidentale e l’autocrazia. Questo termine (riesumato qualche tempo fa, a quanto sembra, dalla rivista americana “Foreign Affairs”) è del tutto impreciso. Il complesso passaggio che ha visto lo stalinismo trasformarsi a poco a poco nel dominio di una “casta plurale” – quella di Breznev e compagni, per intenderci – e poi, con Gorbaciov e soprattutto con Eltsin, in un post-totalitarismo pluralistico basato su un selvaggio capitalismo estrattivo, non ha granché a che fare con l’assolutismo zarista precedente la rivoluzione, questo sì giustamente detto autocrazia, per via della sua proclamata origine divina. Se studiassimo da vicino la vicenda interna all’oligarchia dominante nella Russia odierna, troveremmo che a stento essa ha trovato un punto di equilibrio in un “uomo forte” proveniente dal vecchio Kgb. Buttarlo giù con una guerra sarebbe anche possibile alla lunga (ed è diventata questa la prima opzione statunitense); ma le probabilità che ne venga fuori qualcosa di peggiore – una dittatura militare, per esempio – sono molto alte.
Dunque l’obiettivo della guerra, per quanto odioso sia il dirigente del Cremlino, non dovrebbe essere quello di liberarsene una volta per tutte. Dovrebbe essere, piuttosto: come arrivare a una “pace armata”, con reciproche garanzie, che risolva almeno temporaneamente la questione territoriale? Ciò andrebbe raggiunto tramite un trattato, in cui sarebbero tracciate delle linee di confine sotto protezione internazionale. L’idea che bisogna farla pagare alla Russia – in sé non sbagliata – finisce in una forma di fanatismo se non pone il problema della pace: già le dure sanzioni, le perdite sul campo, l’avere rinunciato a far cadere il governo Zelensky, sono una sconfitta per il regime putiniano, non ci sarebbe alcun bisogno di andare oltre. Ma è l’atteggiamento dell’Ucraina che a questo punto preoccupa: il fatto di avere rifiutato l’incontro a Kiev con il presidente tedesco Steinmeier, soltanto perché questi sarebbe apparso troppo favorevole a una soluzione negoziale con la Russia, è di un’enorme gravità. E la dice lunga su che cosa sia il nazionalismo ucraino.
Di più: anche l’iniziativa del papa – far sfilare nella prossima via crucis due donne insieme, una ucraina e l’altra russa, nel segno di un rifiuto della guerra – è stata criticata da Kiev, con l’argomento che la stragrande maggioranza dei russi non riconoscerebbe l’indipendenza dell’Ucraina. È una presa di posizione che palesa, ormai, uno spirito bellicista preconcetto. Su questa via c’è solo il piano inclinato di una guerra infinita. L’Europa dovrebbe tirarsene fuori, cominciando con il delineare una road map su cui potrebbero ritrovarsi i belligeranti. Se questa venisse respinta dall’Ucraina, i Paesi europei dovrebbero fissare una scadenza temporale entro la quale uscirebbero dal coinvolgimento nell’invio di armamenti, lasciando ai soli Stati Uniti, eventualmente, il compito di andare avanti lungo la china. Al tempo stesso, si potrebbe anche sospendere l’acquisto del gas russo per un periodo – ma all’interno di una proposta articolata di un “cessate il fuoco”, e poi di un armistizio, che fosse presentata con una sua perentorietà.