Non ci si deve far trascinare dalla visione dell’orrore. In Etiopia è in corso una “pulizia etnica” contro i tigrini, punto di approdo della guerra in quel Paese (vedi l’articolo del nostro Vittorio Bonanni), e ciò sta avvenendo nell’indifferenza generale. Nel Mali, alla fine di marzo, l’esercito regolare, insieme con i mercenari russi del gruppo Wagner (su cui vedi ancora Bonanni), ha compiuto una strage di civili in un mercato, per dare la caccia ai terroristi jihadisti. Solo in quanto avvezzi alla circostanza che queste atrocità accadano in Africa (hic sunt leones, segnavano gli antichi nelle loro carte), e perché immagini televisive di ciò che è accaduto non ne abbiamo, avvenimenti del genere non ci scuotono. Per quanto riguarda l’Ucraina, invece, l’orrore viene servito giorno dopo giorno.
E allora è necessario ribadire che l’Occidente – l’Europa in particolare – dovrebbe proporre una road map per l’uscita dalla crisi. Sarebbe puerile affidarsi alla Turchia o alla Cina (che tra l’altro non vuole saperne di tentare una mediazione). Le sanzioni, perfino le armi inviate per sostenere Zelensky, vanno bene solo se c’è al tempo stesso uno sforzo diplomatico per arrivare a un “cessate il fuoco” e, successivamente, a un accordo basato – inutile girarci attorno – su una divisione dell’Ucraina. Sarà un nuovo “muro” nel centro del continente europeo? Pazienza! Ma l’intenzione, rivelata dalle esternazioni fuori misura di Biden, di arrivare a rovesciare Putin e la sua cerchia implicherebbe una guerra prolungata, la continuazione dei massacri, senza contare che – dalla caduta di Putin – potrebbe venir fuori addirittura qualcosa di peggiore: per esempio una dittatura militare.
Resistere al clima bellicista che si sta diffondendo in Occidente significa anche modificare la prospettiva con cui guardiamo a questa guerra. La geopolitica (che è una disciplina originariamente conservatrice se non reazionaria) non può essere l’unica chiave di lettura: la Russia, la sua voglia di ricostituire un impero, o la Nato che sarebbe andata a disturbarla giungendo troppo vicino ai suoi confini, non spiegano tutto. Se restiamo chiusi all’interno di quest’ottica rischiamo di perdere l’essenziale. Che è questo: la cosiddetta globalizzazione – cioè commerci e affari a tutta birra – non era che la superficie di una storia più sotterranea e di lungo periodo. La dissoluzione del “socialismo reale”, del suo blocco multinazionale e multietnico, ha sprigionato i mostri di qualcosa rimasto ibernato per decenni in una coesistenza di tempi storici diversi, insieme moderni e arcaico-tradizionali. La ferocia già vista all’opera una trentina di anni fa nelle guerre della ex Jugoslavia – e che all’epoca, infatti, fu interpretata come una sorta di ritorno etno-tribale – è un punto di riferimento per un paragone con quanto si sta verificando in Ucraina. È vero che la Russia qui ha invaso un Paese sovrano – mentre nei Balcani di allora si assisteva allo smembramento di uno Stato federale –, ma il di più di crudeltà che viene profuso è l’indice che qualcosa di analogo è rimasto sottotraccia durante tutti questi anni che ci separano dalla fine dell’Unione sovietica.
Attaccare il “nemico” per cancellarlo dalla faccia della terra – ciò che fu già l’intenzione della guerra di sterminio mossa da Hitler verso Est – è qualcosa di inspiegabile se non si tira in ballo un odio antico, più o meno apertamente razzistico, che trova il modo di venire fuori. Il richiamo di alcuni gruppi, da una parte e dall’altra, al nazismo non va preso alla lettera: come ho già avuto modo di scrivere, si tratta di nazionalismi estremi, in sé differenti da quel progetto di un nuovo ordine europeo e mondiale concepito dall’hitlerismo. E tuttavia è la radicalità del rancore, intorno a cui si costruisce la guerra, che la fa da padrona nei nazionalismi estremi come nel nazismo.
Tutto ciò non è detto per mettere sullo stesso piano l’aggredito e l’aggressore; è detto piuttosto per cercare di comprendere come sia indispensabile proporre una via di uscita basata sulla ricerca di un compromesso. Pensare che l’Ucraina sarebbe già bella e pronta, se solo vincesse la guerra, per far parte dell’Unione europea sarebbe conferire ipso facto a quel Paese una maturità democratica che dovrebbe forse ancora raggiungere. Chi è per un federalismo europeo non può che rallegrarsi dell’ingresso di un nuovo membro nel processo di integrazione. Al tempo stesso, però, la prudenza è d’obbligo: e un Paese belligerante – che, in una possibile soluzione negoziale, sarebbe addirittura diviso – non potrebbe entrare a farvi parte. Se almeno queste basi fossero chiare, si potrebbe ricominciare a parlare di una iniziativa diplomatica.
Infine, altro aspetto della questione per nulla secondario. Una guerra è un momento di “distruzione creatrice”, come avrebbe detto Schumpeter. Dal radere al suolo oggi le città e i villaggi nasce l’affare della ricostruzione di domani. È una delle poste in gioco. Chi sarà a ricostruire l’Ucraina? Saranno le imprese occidentali o i potentati russi? È un quesito aperto. Ma nel sistema capitalistico – di cui sia gli Stati Uniti e l’Europa sia la Russia fanno parte, pur con le loro specificità – è un nodo non da poco. Nella trattativa che a un certo punto dovrà pure aprirsi, si vedrà come una probabile divisione dell’Ucraina sarà condizionata anche da questi interessi.