Al Congresso, l’opposizione non riesce a coagulare la maggioranza necessaria (52 voti) a destituire il presidente Pedro Castillo, per rimandarlo nella provincia dell’interno in cui faceva il maestro rurale, finché non è divenuto il rappresentante di successo della sua categoria entrando in politica. Lui sembra ormai avere esaurito la capacità nel trovare, di giorno in giorno, i voti indispensabili per restare a Palazzo Pizarro; mentre il Perù, prostrato dalla pandemia e ora dagli effetti inflazionistici dell’aggressione russa all’Ucraina, affonda in una crisi economica senza una visibile via d’uscita.
Non meno tenaci, però, avversari, critici (spesso gli stessi alleati della settimana precedente) o nemici dichiarati della prima, si mobilitano nel Paese decisi a cacciarlo. E le piazze, pur non sempre affollatissime, appaiono in tumulto. Favoriti dalle sue ormai evidenti inadeguatezze, tanto come politico quanto come amministratore (ha formato e disfatto cinque governi in meno di un anno, attraverso i quali è transitato dall’estrema sinistra del primo all’estrema destra dell’ultimo), gli oppositori neppure si preoccupano di tenere nascoste le congiure che gli ordiscono contro una dietro l’altra.
Nelle intenzioni dichiarate, l’iniziativa riformatrice di Castillo avrebbe dovuto mettere mano alla Costituzione, ai settori più arretrati e inefficienti dell’amministrazione, dalla giustizia al sistema fiscale, alla sanità e all’istruzione (la concorrenza fraudolenta della pletora di università private nei confronti di quella pubblica è stata, tra l’altro, una causa diretta della turbolenta fine del suo predecessore istituzionale) si è palesemente esaurita. L’aumento del costo della vita, così come in tutto il continente, surriscalda il mercato del lavoro e il confronto politico fino ad arroventare la già complessa situazione.
Negli ultimi giorni, numerose manifestazioni hanno invaso le maggiori città, e a Lima gli scontri con i reparti della polizia anti-sommossa sono stati sanguinosi. Il ministro della Difesa ha ammesso che, nell’ultima settimana, sono morte quattro persone e altre venti sono rimaste ferite. A sconvolgere ulteriormente il clima politico e sociale, si aggiunge l’ennesima, acerrima battaglia giuridico-politica per la liberazione anticipata di Alberto Fujimori. La figlia Keiko, con il suo partito di estrema destra, si batte da anni e con ogni mezzo (è anche sotto processo per corruzione attiva e passiva) pur di ottenerla.
L’ex capo dello Stato (dal 1990 al 2000), originario del Giappone, ha oggi 84 anni. In carcere dal 2007 per corruzione aggravata e continuata, con una condanna a sei anni, nel 2009 ne ha ricevuta un’altra a venticinque per strage e altre gravissime violazioni dei diritti umani. Dovrebbe quindi restarvi fino al 2038. Ma in considerazione dell’età e dello stato di salute non buono (oltre alle spregiudicate pressioni politiche della figlia), i suoi avvocati hanno ottenuto una sospensione della pena. A cui però si è opposta la Corte suprema sulla base di rilievi essenzialmente procedurali. Castillo, in quanto capo dello Stato, è investito anche da questa vicenda.
Il Perù vive tutte le difficoltà del suo sviluppo incompiuto: la forte dipendenza dall’export di materie prime, l’insufficiente mercato dei capitali e la ristrettezza di quello dei consumi interni, l’inadeguatezza delle infrastrutture. Più che mai, negli ultimi venti anni, a pesare è stato il fallimento dei suoi gruppi dirigenti: dai socialisteggianti eredi dell’Alianza popular revolucionaria – l’Apra di Haya de la Torre –, ai militari populisti, alla collezione di economisti neoliberisti, tutti protagonisti, o comunque gravemente coinvolti, in scandali finanziari clamorosi che hanno portato il Paese alla bancarotta.
“La rovina del Perù è la corruzione, non il neoliberismo”, mi ripeteva Alejandro Toledo nel corso della campagna elettorale che, nel 2001, lo aveva portato alla massima magistratura dello Stato. La sua umile origine, il giovane volto indio illuminato dallo sguardo intelligente – che, tra borse di studio e lavori di facchinaggio pesante, lo avevano condotto fino a un dottorato in Economia alla Stanford University di California – davano fiducia. Confermata da una brillante carriera nelle grandi banche multinazionali e nell’alta amministrazione peruviana. Dal 2017, è esule negli Stati Uniti per sfuggire alla giustizia peruviana che lo ricerca, attraverso l’Interpol, per gravi e molteplici atti di corruzione.