Il manifesto della Lega affisso su tutti i muri parla chiaro: su Genova pioveranno parecchie centinaia di milioni di euro tra Pnrr, rinnovo della diga foranea, prolungamento della metro e cabinovia. La “giunta del fare” – cui si deve l’invenzione geniale del “modello Genova”, tanto apprezzato da Mario Draghi – non nasconde la propria soddisfazione, e prepara così il terreno alle elezioni amministrative che si approssimano. In realtà, però, pare che sia presto per le autocelebrazioni: la questione del rinnovo/ampliamento della diga è tutt’altro che definitivamente chiarita, e gli eventi degli ultimi mesi ne mettono in crisi molti dei presupposti.
A complicare le cose è giunta, in questi giorni, anche una nuova analisi costi-benefici richiesta dal ministero dell’Ambiente quale integrazione della “valutazione di impatto ambientale”, analisi che è stata affidata alla Università Bocconi e che si è rivelata meno approssimativa – e meno ottimistica – di quella condotta alla fine del 2020. Nel precedente documento veniva infatti presentata una necessità pressoché assoluta, per il porto di Sampierdarena, di modificare le sue strutture, pena un declassamento a “porto di cabotaggio” e una perdita di importanza sullo scacchiere mediterraneo. Nel nuovo studio, condotto a correzione e revisione del primo, si delinea un panorama completamente diverso, in cui l’apporto in termini di movimentazione container della grande struttura che si dovrebbe realizzare, non è poi così consistente com’era stato segnalato in precedenza – e il destino delle installazioni portuali già esistenti, se la nuova diga non si dovesse realizzare, non sarebbe poi così tragico come veniva in precedenza ventilato. Anzi, secondo quanto denuncia il Comitato per il porto pubblico, che segue da presso tutta la vicenda, dalla realizzazione della nuova diga verrebbero favoriti solo alcuni terminal a scapito di altri, con vantaggi evidenti per alcuni imprenditori e molto scarsi per i rimanenti. Ci sarà chi vedrà incrementati i propri volumi di traffico, e chi rimarrà con il cerino in mano, magari dovendo anche fare i conti con lo spostamento dei depositi chimici (di cui abbiamo già parlato su “terzogiornale”) in aree prossime a quelle di sua competenza.
C’è un’altra questione importante, che però non è per nulla chiara, ed è il ritorno in termini occupazionali del gigantesco investimento che si prospetta. Se il primo documento di analisi costi-benefici rimaneva vago al riguardo, il secondo, e più recente, non si pronuncia. Forse già ora le cose non vanno benissimo, dato che il presidente del porto – e commissario straordinario alla nuova diga, Paolo Emilio Signorini – nemmeno ha ancora pubblicato il Piano organico del personale, pur essendo il precedente scaduto da oltre un anno.
Difficile dunque dire se e in quale modo l’enorme investimento potrà contribuire a risollevare l’economia stagnante della ex Superba, su cui gravano, da tempo, trend pesantemente negativi. La de-industrializzazione ha innescato da decenni un meccanismo di contrazione e di crollo demografico, che l’ha ridotta alle dimensioni che aveva nei primi anni Trenta del Novecento. D’altro canto, porto e città hanno spesso mostrato, negli ultimi decenni, di procedere separati, se non addirittura di avere interessi che confliggono. Questo insegnano anche gli studi più recenti sulle infrastrutture della logistica, che possono funzionare in relativa autonomia rispetto ai territori su cui insistono, dato che il loro obiettivo primario è assicurare il flusso delle merci. E la stessa economia del Nord-ovest, la cui richiesta dovrebbe alimentare il traffico di container, pare segnare il passo.
La scommessa sulle navi giganti portacontainer, che potrebbero venire accolte nel bacino dopo il suo ampliamento, sembra inoltre sempre più azzardata, alla luce di quanto sta avvenendo negli ultimi mesi, con il rallentamento dei processi di globalizzazione, con la ristrutturazione e lo spostamento di molti nodi della logistica. Le conseguenze della pandemia e la guerra sembrano ridisegnare in maniera non provvisoria la mappa degli spostamenti di merci attraverso il pianeta. Non da ultimo, la crisi ambientale potrebbe influire rendendo praticabili nuove rotte, e schiudendo la strada a installazioni portuali, oggi considerate remote o poco convenienti. Come emerge dal report 2021 di Assoporti, l’anno appena conclusosi è stato tutt’altro che lusinghiero per il porto genovese, che – certo complice anche la congiuntura internazionale sfavorevole – ha fatto segnare un arretramento con un saldo finale negativo.
La “giunta del fare” si fa dunque bella di milioni che rimangono in buona parte ancora sulla carta e di progetti monstre che appaiono quantomeno discutibili, se non addirittura farlocchi come nel caso della cabinovia “alpina” che dovrebbe collegare la stazione marittima alle fortificazioni napoleoniche situate sulle colline. In città non si intravedono però, per il momento, forze politiche in grado di articolare una critica di ampio respiro a questa progettualità immaginifica e artificiosa, che insiste su di un rilancio tutto basato su una pioggia di denaro in gran parte pubblico, vagheggiando ciclopici traffici di container, mentre la Genova reale invecchia, si impoverisce e assiste all’esodo dei giovani qualificati.
Le istituzioni locali dovrebbero riflettere sulle ricadute complessive dei processi, arrivando a comprendere che solo facendo leva sulle forze sociali e sul capitale umano presente in città si può invertire una ormai vertiginosa spirale di declino. Ma è certo più facile insistere sulle taumaturgiche capacità manageriali del sindaco Bucci, sventolando ovunque il vessillo del ponte ricostruito, epitome di un “modello Genova”, tanto vuoto di contenuti quanto frutto di un mix di autoritarismo e scelte arbitrarie solo apparentemente “semplificatrici”.