“Serve un intervento organico e strutturale, che dia un assetto stabile a tutto il sistema previdenziale. Una legge che sostituisca le regole della Fornero e superi le varie misure transitorie e tampone, tipo ‘quota 102’, che è stata una vera e propria presa in giro. Per questo la scelta dei tempi è fondamentale. Se vogliamo pensare alla riforma da far partire dal prossimo anno, è evidente che la previsione di questo intervento dovrà essere inserita nel Documento di economia e finanza che andrà approvato entro aprile”. Sono queste le parole utilizzate da Roberto Ghiselli, segretario confederale della Cgil, al quale è stato chiesto di fare il punto sulla trattativa sulle pensioni di cui pare si siano perse le tracce.
Eppure la scadenza indicata dalla Cgil e dagli altri due sindacati confederali, la Cisl e la Uil, è molto chiara: il Def, il Documento di economia e finanza che sarà la base della manovra finanziaria del prossimo anno (2023) e chel’esecutivo guidato da Mario Draghi deve chiudere entro il mese di aprile. Le giustificazioni più o meno formali alle quali i ministri e lo stesso presidente del Consiglio hanno fatto riferimento nell’ultimo periodo riguardano il mutamento del quadro generale: gli effetti della lunga pandemia sull’economia, il risveglio imprevisto dell’inflazione e ora la guerra, con tutte le sue pesanti conseguenze economiche. Una spiegazione realistica dei ritardi della trattativa, una giustificazione ovvia e necessaria, ma sicuramente non sufficiente.
I motivi dell’attuale impasse sono probabilmente anche altri. Ci sono degli scogli da superare che per ora dividono il governo dalle parti sociali, senza contare le pressioni delle organizzazioni degli industriali che finora non sono state coinvolte nei tavoli di elaborazione delle proposte di superamento della riforma Fornero. Dai palazzi ministeriali fanno comunque sapere che il “cantiere” previdenziale non ha chiuso i battenti.
Dopo l’entrata in vigore di “quota 102” (che ha sostituito “quota 100”, cavallo di battaglia della Lega di Salvini), l’esecutivo ha messo sul tavolo, nel confronto con i sindacati, una nuova proposta di legge che prevede di uscire dal lavoro a 64 anni rispetto all’età ordinaria di pensionamento a 67 anni prevista dalla legge Fornero, e che prevede, inoltre, l’erogazione solo della parte contributiva maturata fino a quel momento, riconoscendo poi la parte retributiva raggiunti i 67 anni. I tecnici del ministero del Lavoro, incaricati dal governo per la gestione della trattativa sulla riforma, hanno anticipato alcune proposte per uscire dall’impasse della flessibilità.
Da parte loro Cgil, Cisl e Uil hanno già fatto sapere, però, di non poter accettare un meccanismo che produrrebbe un taglio del 30% delle pensioni di tutti quei lavoratori e lavoratrici che decidessero di lasciare il lavoro prima dell’età di vecchiaia (com’è noto, infatti, la vecchia pensione di anzianità non esiste più).
L’esecutivo ha poi manifestato la disponibilità a ragionare sulla revisione dei coefficienti di trasformazione e sulla possibilità di ridurre la soglia di 2,8 volte l’assegno minimo per chi è interamente nel sistema contributivo e vuole accedere al pensionamento a 64 anni. Chiusura netta, invece, sull’ipotesi ribadita da Cgil Cisl e Uil di ottenere, in ogni caso, la pensione con 41 anni di contributi senza vincoli sull’età.
Uscendo dai vari incontri tecnici che si sono svolti nella sede del ministero guidato da Andrea Orlando negli ultimi due mesi, i rappresentanti sindacali hanno fatto sapere che anche il governo condivide la necessità di un superamento delle rigidità attuali presenti nel sistema, in particolare quella legata appunto ai 67 anni (l’asticella che porta l’Italia al top delle classifiche europee), anche se per l’esecutivo l’unica strada possibile sembra quella del ricorso completo al sistema contributivo e del ricalcolo delle prestazioni.
Al tavolo sono stati affrontati anche i temi dei coefficienti di trasformazione (che determinano il valore delle pensioni in relazioni alle retribuzioni) e quello dell’eliminazione della soglia del 2,8 e 1,5 volte l’assegno sociale per coloro che raggiungono rispettivamente 64 e 67 anni. Secondo il quadro che è stato presentato dal governo, la flessibilità che viene ipotizzata comprende anche una tutela ulteriore per le categorie più deboli come disoccupati, lavori gravosi, invalidi e coloro che assistono un familiare con handicap, punto su cui il governo si è impegnato a effettuare delle verifiche tecniche. Ma da quello che si è potuto sapere la contrarietà dei tecnici ministeriali, rispetto alla richiesta sindacale relativa alla riduzione dell’accesso a 41 anni per la pensione anticipata, è totale.
Tutti e tre i sindacati confederali hanno apprezzato la disponibilità del governo nel voler discutere le proposte contenute nella piattaforma unitaria presentata a gennaio; ma lo scoglio vero, a questo punto, è il ricalcolo. “Lo scambio non può essere quello del ricalcolo contributivo. Se c’è una traiettoria comune bisogna vedere come ci si arriva”, ha spiegato il segretario confederale, Ignazio Ganga. E anche per il segretario confederale Uil, Domenico Proietti,è “significativo” che il governo abbia riconosciuto la necessità di introdurre una maggiore flessibilità nell’età di accesso alla pensione, ma è “sbagliata l’idea di legare questa flessibilità al ricalcolo contributivo che si tradurrebbe in un ulteriore penalizzazione per i lavoratori”.
Quindi a che punto siamo? “Il confronto per una riforma era stato finalmente avviato positivamente – dice il segretario della Cgil, Roberto Ghiselli – dopo i primi avanzamenti fatti con il governo Conte, bruscamente interrotti con la caduta di quell’esecutivo, con il governo Draghi si era riavviato un dialogo proficuo, seppur tardivo. In vari incontri tecnici con i ministeri competenti abbiamo avuto modo di spiegare più nel dettaglio le nostre proposte contenute nella piattaforma di Cgil, Cisl, Uil e interloquire sulle possibili soluzioni. Sulla pensione di garanzia per i più giovani, per esempio, si è aperta una discussione sulle possibili diverse modalità di realizzazione. Alla nostra proposta d’introdurre una pensione contributiva di garanzia è stato abbozzato un approccio in parte diverso che immagina un mix tra strumenti previdenziali e strumenti assistenziali”.
Nella piattaforma unitaria i sindacati hanno proposto che si possa permettere alle lavoratrici e ai lavoratori di poter scegliere quando andare in pensione, senza penalizzazioni, a partire dai 62 anni di età o con 41 anni di contributi a prescindere dall’età. Secondo Cgil, Cisl, Uil la proposta (bocciata dal governo) è ancor più sostenibile considerando che siamo in un passaggio di fase decisivo per il sistema previdenziale, in quanto le future pensioni saranno liquidate prevalentemente o esclusivamente con il calcolo contributivo, con il quale un eventuale anticipo pensionistico sostanzialmente non comporta costi aggiuntivi per lo Stato. Andrebbero inoltre ridotti sensibilmente i vincoli che nel sistema contributivo condizionano il diritto alla pensione a 64 o 67 anni di età al raggiungimento di determinati importi minimi del trattamento (1,5 e 2,8 volte l’assegno sociale), penalizzando in questo modo i redditi più bassi.
Occorre, inoltre, modificare l’attuale meccanismo automatico di adeguamento delle condizioni pensionistiche alla speranza di vita, doppiamente penalizzante perché agisce sia sui requisiti anagrafici e contributivi di accesso alla pensione sia sul calcolo dei coefficienti di trasformazione: quindi, si va in pensione sempre più tardi con pensioni sempre più basse. Bisogna anche scongiurare il rischio che lunghi periodi di congiuntura economica negativa, come accaduto negli ultimi anni, determinino effetti sfavorevoli sulla rivalutazione del montante dei contributi accantonato e quindi sulle prestazioni pensionistiche.
Come esempio negativo degli effetti dell’applicazione sulle pensioni del metodo del ricalcolo per le uscite anticipate i sindacati citano il caso di “opzione donna”: il ricalcolo applicato finora ha determinato pesanti penalizzazioni per le lavoratrici. Andando a guardare gli assegni previdenziali per le lavoratrici che hanno scelto di lasciare il lavoro con “opzione donna”, sono evidenti le penalizzazioni, che in molti casi superano anche il 30% dell’importo della pensione. Se il governo proponesse di utilizzare lo stesso meccanismo per poter andare in pensione prima dei 67 anni, ci sarebbero effetti estremamente penalizzanti per tutti, e sarebbe alla fine una soluzione insostenibile proprio per le fasce più deboli della popolazione lavorativa. Secondo i sindacati, per quanto concerne le donne e il lavoro di cura, si devono invece mettere in campo soluzioni più eque e incisive. Occorre poi garantire condizioni più favorevoli per l’accesso alla pensione delle categorie più deboli, a iniziare da quelle che rientrano nell’Ape sociale (disoccupati, invalidi, coloro che assistono un familiare con disabilità e chi ha svolto lavori gravosi o usuranti). In particolare, i sindacati chiedono di tutelare la figura dei “lavoratori fragili”, che nell’emergenza sanitaria sono più esposti ai rischi di contagio.