“Una Venezia selvaggia sulla polvere senza San Marco e senza la Giudecca, una città-forma, la cui bellezza non risiede nei deperibili monumenti, ma nell’incomparabile disegno”. Queste parole sono di Pier Paolo Pasolini, contenute nel libro Corpi e luoghi, e la città descritta è San’a’, la capitale dello Yemen, dove nel 1970 realizzò un documentario. Pasolini non c’è più dal 1975, ucciso chissà da chi. Ma nella tragedia, qualora fosse vissuto a lungo, si è almeno risparmiato di vedere come questo Paese mediorientale, un vero luogo “delle mille e una notte”, sia stato trasformato e distrutto da una guerra civile che dura ormai da otto anni, vero e proprio conflitto per procura tra le due potenze della regione del Golfo, ovvero la sunnita Arabia Saudita, sostenuta dall’Occidente, e lo sciita Iran.
Ma come e perché è cominciato un conflitto che sta distruggendo uno dei Paesi più poveri della regione? Triste dirlo, ma a dare il via alle ostilità, in un contesto certamente non nuovo a guerre interne, è stata anche in questo caso una delle “primavere arabe” del 2011, che invece di democratizzare gli Stati coinvolti (salvo nel caso della Tunisia, che tuttavia vive dalla scorsa estate l’incognita dell’autoritarismo del presidente Kaïs Saïed) li ha destabilizzati, buttando benzina sul fuoco di conflitti latenti o endemici.
Il primo atto è consistito, il 27 febbraio 2012, nelle dimissioni di Ali Abdullah Saleh, presidente dal 1990, a favore del suo vice, Abdrabbuh Mansour Hadi, deposto il 22 gennaio 2015, ma tuttora presidente riconosciuto dalla comunità internazionale. La rinuncia di Saleh, che sarà poi assassinato nel 2017, non portò all’auspicata stabilità nel Paese. Anzi, l’ostilità tra i due uomini, rispettivamente sciita e sunnita, ha inasprito l’avversione tra le due confessioni islamiche.
I combattimenti presero il via nel 2014: il movimento ribelle musulmano sciita Huthi prese il controllo della provincia settentrionale di Saada e delle aree limitrofe; si è poi avvicinato alla capitale San’a’, costringendo il sunnita Hadi all’esilio. Nel marzo 2015 la comunità internazionale, Stati Uniti in testa, ha sostenuto l’azione militare della coalizione, guidata dall’Arabia Saudita – con gli Emirati arabi uniti, il Sudan, il Bahrein, il Kuwait, il Qatar, l’Egitto, il Marocco, la Giordania e il Senegal –, con l’obiettivo di ripristinare il governo di Hadi, estromettendo Mahdi al-Mashat, esponente dei ribelli sciiti, che dal canto loro sono appoggiati, come dicevamo, dall’Iran e dalle milizie libanesi filoiraniane di Hezbollah.
Da allora, fino a oggi, è stato un terribile alternarsi di combattimenti, che hanno provocato oltre ventimila vittime civili, tra il marzo 2015 e il marzo 2021; ma c’è chi parla di oltre centomila morti. Secondo l’organizzazione umanitaria Save the Children, “quasi otto anni di conflitto hanno costretto più di quattro milioni di persone, tra cui più di 2,4 milioni di bambini e bambine, a lasciare le loro case, e si stima che il 65% della popolazione – venti milioni di persone – abbia bisogno di assistenza umanitaria”. Inoltre, la carenza di cibo, acqua potabile, servizi igienici e assistenza sanitaria, nonché la diffusione di massicce epidemie di colera e difterite, hanno gravato sulle condizioni di vita dei civili.
Dall’inizio del conflitto, datato 21 settembre 2014, il Sud dell’Arabia Saudita è stato preso di mira più volte dagli sciiti. In particolare l’aeroporto di Abha, da dove, secondo i ribelli, partirebbero gli attacchi contro la capitale, sarebbe un target legittimo perché militare. Diversa, ovviamente, la versione di Riad, la quale considera invece quel luogo un normale punto di riferimento aeroportuale. La coalizione, dal canto suo, ha lanciato a più riprese diverse offensive contro la capitale yemenita, il cui aeroporto è stato trasformato in una vera e propria base militare dalla quale partono continui attacchi contro il Regno saudita. Secondo il portavoce della coalizione, il colonnello Turki al-Maliki, “Teheran ha impiegato lo scalo aeroportuale per trasferire armi, di diversa tipologia, destinate al gruppo sciita, dopo aver creato, nel 2014, un ponte aereo, al ritmo di ventotto voli settimanali da Teheran a San’a’”.
Ma che spazio ha la diplomazia in un quadro così complicato, in cui a farla da padrone sono, come dicevamo, grandi potenze regionali e internazionali? Il 5 settembre scorso è arrivato il nuovo inviato speciale delle Nazioni Unite in Yemen, lo svedese Hans Grundberg, che ha sostituito il britannico Martin Griffiths. Il nuovo arrivato conosce bene le diverse dinamiche che caratterizzano il conflitto yemenita, essendo stato, tra il 2019 e il 2021, ambasciatore dell’Unione europea nello Yemen.
Che eredità gli ha lasciato il suo predecessore? Per Eleonora Ardemagni, docente di Storia e istituzioni dell’Asia, presso l’Università cattolica del Sacro cuore di Milano, “il bilancio della gestione Griffiths (2018-21) si presenta in chiaroscuro. Infatti, il diplomatico britannico è riuscito a siglare due accordi importanti, quello di Stoccolma (dicembre 2018) per il cessate il fuoco nella città-porto di Hodeida (che scongiurò un imminente attacco di terra guidato dagli Emirati arabi uniti) e, nel settembre 2020, lo scambio di prigionieri più numeroso mai avvenuto dagli accordi di Stoccolma, con la mediazione della Croce rossa internazionale. Tuttavia – continua Ardemagni – Griffiths non è riuscito a far siglare un cessate il fuoco nazionale, nonostante proprio l’approccio nazionale – e non più locale, ‘crisi per crisi’ – sia tornato al centro del processo diplomatico”. Da questo contesto, è nata nell’aprile 2015 la risoluzione n. 2216 del Consiglio di sicurezza dell’Onu, che però esclude dalla trattativa attori politico-militari sorti dopo il 2015, come le forze dell’ovest guidate da Tareq Saleh, il nipote dell’ex presidente, e chiede agli Huthi di ripristinare le condizioni militari e politiche precedenti alla presa di San’a’ del gennaio 2015. “Probabile – conclude la studiosa – che il nuovo inviato Grundberg riparta dal ‘piano Griffiths’, apportando però qualche modifica”.
Ma di fronte a questi diversi tentativi di fermare le ostilità e raggiungere un accordo di pace di lunga durata, vanno fatte alcune considerazioni tenendo conto, come abbiamo già detto, del ruolo che le superpotenze giocano all’interno dello scenario di guerra. Al riguardo, sono chiare le parole di Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International per l’Italia. Nel narrare uno dei tanti cruenti episodi bellici in Yemen, l’esponente dell’organizzazione umanitaria denuncia l’utilizzo di “armi statunitensi per compiere crimini di guerra”. Da anni – sostiene Noury – “le autorità statunitensi sanno perfettamente che le loro armi inviate agli Stati del Golfo vengono usate per compiere attacchi illegali contro la popolazione yemenita. Eppure, lo scorso settembre, al momento dell’approvazione del bilancio annuale della difesa Usa, l’emendamento che chiedeva la fine del sostegno alle operazioni offensive e agli attacchi aerei dell’Arabia Saudita nello Yemen è improvvisamente scomparso”.
È evidente che queste informazioni delineano un quadro non nuovo in scenari di crisi. Se gli interessi, in questo caso degli Stati Uniti e dei loro alleati nell’area, prevalgono sui pur lodevoli tentativi di pace portati avanti dall’Onu, non si arriverà mai a capo di nulla. Fin dal suo insediamento, l’amministrazione Biden non ha mai manifestato alcun interesse a riallacciare i rapporti con l’Iran, come invece aveva fatto Obama, soprattutto sul tema del nucleare. È evidente che il miglioramento delle relazioni diplomatiche con Teheran sarebbe tornato utile ai fini del raggiungimento di una pace nello Yemen. Ma, come insegna la storia, a prevalere sono spesso meschini interessi geopolitici che non guardano in faccia a nessuno, a Kiev come a San’a’.