Come tutto lasciava prevedere, la lunga stagione di instabilità politica che affligge il Perù, lungi dall’essere superata, non consente un governo al riparo dalle polemiche. E non ha nemmeno permesso al presidente, Pedro Castillo, di presentare un proprio esecutivo completo, e di metter fine alla sequela di rinunce di vari ministri registrata dallo scorso 28 luglio in poi, quando l’ex maestro, eletto con la formazione di sinistra Perú libre, ha assunto la carica presidenziale.
Ne consegue che, con l’andar del tempo, Castillo ha visto sbriciolarsi quel margine di popolarità su cui poteva contare in un Paese del resto radicalmente spaccato. A tal punto che, secondo una recente indagine di Ipsos, il 53% dei peruviani vedrebbe con favore una sua rinuncia alla massima carica, data l’ondata di accuse che lo coinvolgono in casi di corruzione. Come se la sua uscita di scena potesse, poi, in qualche modo mettere fine a una situazione politica ampiamente deteriorata, fatta di trabocchetti, agguati e rese dei conti, che dal 2018 ha visto alternarsi alla massima carica ben cinque presidenti. E non fosse, invece, solo un capitolo, l’ennesimo, di una storia senza fine che pesa come una maledizione sulla vita recente del Paese.
Sterzando a destra e a manca per avere garantita una maggioranza a livello parlamentare, Pedro Castillo ci ha messo di certo del suo, affastellando una serie di errori che ha cercato di giustificare con la necessità di imparare il difficile mestiere di presidente. Una confessione della sua mancanza di esperienza in un momento difficile del Paese, afflitto dalla pandemia, dal peggioramento economico e dalla crisi politica. Una mossa che può aver contribuito a favorire la presentazione della mozione per la sua destituzione, la seconda negli otto mesi da che è nato il suo governo, di Jorge Montoya, il deputato di Renovación popular che ha raccolto le firme necessarie, dopo che l’imprenditrice Karelim López ha accusato Castillo di essere coinvolto in attività di corruzione.
Un analogo tentativo di sottoporre a giudizio politico il presidente al fine di votare la sua destituzione era già stato messo in atto lo scorso dicembre, senza che i promotori ottenessero i voti necessari. Questa volta, invece, hanno votato a favore 76 deputati contro 41 contrari e un solo astenuto. Avviata la procedura, Castillo dovrà sottoporsi a giudizio politico il prossimo 28 marzo. Se 87 dei 130 deputati saranno favorevoli, sarà costretto a dimettersi secondo quanto detta la Costituzione, anche se al momento è difficile prevedere se sarà questo l’esito. Di certo non gli giova contare su un indice di gradimento ora bassissimo, dal momento che solo circa il 25% dei peruviani lo sostengono. Anche se, al momento, i partiti che hanno deciso di appoggiare la mozione sono solo quattro e contano su 53 voti.
Ad ogni modo, se un sondaggio pubblicato lo scorso febbraio dal quotidiano “La Republica” conferma l’impopolarità di Castillo e gli assegna un 63% di rifiuto, una disapprovazione ancora maggiore affligge il Congresso, con un 82% di giudizi negativi. Difficile trovare una fotografia che meglio illustri la grave crisi vissuta dalla politica nel Paese, la palpabile delusione dei peruviani, la contundente perdita di speranza nei partiti e nelle istituzioni come mezzi adatti a risolvere i problemi.
La stessa imprenditrice che ha denunciato il sistema per ottenere denaro dalla licitazione di opere pubbliche per finanziare la campagna elettorale è indagata dalla magistratura per corruzione. Contro le sue accuse, Castillo si è difeso strenuamente davanti al parlamento il 15 marzo, il giorno dopo che il legislativo aveva votato l’ammissione della proposta di destituzione per supposta “permanente incapacità morale” a governare.
Nel suo discorso, Castillo ha negato di aver commesso atti di corruzione o di aver cercato di favorire interessi di parte, e ha denunciato la crisi istituzionale senza precedenti di cui soffre il Perù, annunciando “una serie di riforme che permettano di superare questa crisi strutturale”. Tra le tante, alcune riguardano l’istruzione, la sicurezza, nonché misure che favoriscano la rinascita economica. Ha anche negato l’esistenza di un gabinetto ombra che agirebbe al di fuori degli ambiti istituzionali e che orienterebbe il suo operato. E ha pure smentito l’intenzione di dare alla Bolivia uno sbocco al mare concedendole una parte del territorio nazionale. Un’accusa maliziosa contro Castillo da parte dei suoi avversari, secondo la quale il presidente sarebbe pronto a cedere parte del territorio peruviano al governo “fratello” di Luis Arce per permettergli di risolvere una questione che sta particolarmente a cuore ai boliviani. Un tema agitato l’ultima volta da Evo Morales, con un ricorso alla Corte internazionale dell’Aia teso a ottenere la concessione alla Bolivia, da parte del Cile, di un accesso con sovranità al Pacifico. Il ricorso nel 2018 fu respinto con un sonoro schiaffo a Morales; e abortì così il tentativo di rimediare alle conseguenze della “guerra del guano e del salnitro” (1879-84) che oppose il Cile alla Bolivia, con il Perù alleato, che per i boliviani comportò la perdita di 120mila chilometri quadrati di territorio e di 400 chilometri di costa.
Se il Congresso dovrà discutere, a breve, la possibile destituzione del presidente, sarà anche chiamato a votare la fiducia al nuovo governo. Presieduto da Aníbal Torres, sarà il quarto nella breve traiettoria dell’attuale presidenza. Un dato che consente all’amministrazione Castillo di battere un record come quella che ha prodotto più cambi di ministri e di governi nella storia istituzionale del Paese.
Infine, ad aggiungere tensioni nella già travagliata vita politica peruviana, è giunta la sentenza con la quale il tribunale costituzionale ha riconfermato l’indulto per motivi umanitari ad Alberto Fujimori, che avrebbe dovuto stare in carcere fino al 2032, concesso nel dicembre 2017 dal presidente Pedro Pablo Kuczynski, ai domiciliari da trentasei mesi per reati commessi durante il suo mandato.
Fujimori era stato condannato come mandante di due matanzas. Quella di Barrios Altos, nel 1991, in cui morirono quindici persone, e quella della Universidad La Cantuta, nel 1992, che fece dieci vittime. Entrambe erano state commesse da uno squadrone paramilitare che aveva preso il nome di “grupo Colina”. Oltre a ciò, il Chino – il soprannome di Alberto Fujimori in Perù – era in carcere per i sequestri del giornalista Gustavo Gorriti e dell’imprenditore Samuel Dyer, avvenuti nel 1992.
Al momento di decidere, i sei membri del tribunale costituzionale si sono spaccati a metà, e ha pesato quindi il voto di qualità del presidente. Castillo, ed è difficile dargli torto, ha immediatamente giudicato l’accaduto come un riflesso della “crisi istituzionale” in atto nel Paese. La sentenza che dovrebbe mettere in libertà l’ex dittatore, ha di nuovo diviso il Perù tra i nostalgici di Fujimori, da una parte, e chi invece gli si è opposto o è stato vittima delle sue violenze. E ha suscitato grandi preoccupazioni nella Comisión Interamericana de Derechos Humanos, che ha denunciato come la decisione leda il “diritto alla giustizia delle vittime”.
A Lima e in altre città peruviane la gente è scesa in piazza al grido di el indulto es un insulto, con l’appoggio di alcune forze politiche presenti in parlamento. Nella capitale, la manifestazione, convocata dai social, ha avuto inizio nella piazza San Martín dirigendosi verso il Palacio de Justicia. La destra, al contrario, ha giudicato l’indulto come un rendere finalmente giustizia a un uomo che, nei suoi dieci anni di governo, ha restituito speranza al Paese.
Tutta la vicenda ha origine nel 2017, quando l’allora presidente Pedro Pablo Kuczynski concesse la libertà a Fujimori per motivi di salute. Furono molti, allora, a leggere il provvedimento come uno scambio di favori del capo dello Stato col fujimorismo, tanto più che l’indulto giunse solo poco dopo il salvataggio di Kuczynski da parte di Kenji Fujimori, figlio di Alberto, e di nove deputati di Fuerza popular, partito della destra, che si astennero in un voto che avrebbe altrimenti portato alla fine della presidenza.
Successivamente, la Corte interamericana de derechos humanos si pronunciò contro il provvedimento a favore di Alberto Fujimori, macchiatosi di crimini contro l’umanità, e la Corte suprema del Paese sembrò mettere la parola fine all’intera vicenda, dichiarando la nullità del provvedimento. Fujimori tornò in carcere, dove ancora si trova quando giunge la decisione del tribunale costituzionale che riporta tutto, come nel gioco dell’oca, alla casella di partenza. Difficile non cogliere il peso politico di una tale decisione in un contesto caratterizzato dall’aspro scontro politico e di crisi istituzionale, che potrebbe portare alla destituzione di Castillo.
All’inizio tutto ciò è servito a ritardare la perdita della poltrona a Kuczynski, dimessosi successivamente alla vigilia di un voto che avrebbe comunque comportato la sua fine. Ora, dopo anni, si rimette in moto un meccanismo che riporta il Paese indietro nel tempo, costringendolo a fare i conti con i fantasmi di un passato che né una sentenza definitiva della giustizia, né il conseguente giudizio storico, sono riusciti a seppellire.