Tucidide sosteneva che le cose del passato si ripetono nel futuro in modo simile, se non identico: quindi, historia magistra vitae, come più tardi dirà Cicerone. Wilhelm Windelband (un filosofo tedesco dell’Ottocento) distinse invece tra scienze “nomotetiche”, cioè quelle naturali, e scienze “idiografiche”, come la storia: mentre infatti le prime elaborano leggi (nómoi) che descrivono fenomeni che si ripetono invariabilmente nello stesso modo, se le condizioni iniziali sono identiche, le altre non possono che descrivere il fatto singolo, peculiare (ídios). Il nostro Gaetano Salvemini (in Storia e scienza, 1948) osservava però che, da un lato, esistono fatti naturali che sono accaduti una sola volta e non si sono ripetuti mai più, come la distruzione di Pompei ed Ercolano, mentre, dall’altro, “molti fatti spirituali si ripetono”, in quanto “milioni di uomini (…) costruiscono case e città; essi comprano, vendono, si sposano, si aiutano a vicenda, muovono guerra e così via”. Il modo di operare di ogni storico serio è quindi quello di rintracciare delle possibili analogie con il passato, non dimenticando, però, che analogia non significa e non può significare identità; e, soprattutto, cercando di individuare quale analogia con il passato sia la più adeguata in relazione a ciò che accade nel presente.
Questa vuole essere la premessa all’analisi del problema al centro dell’attenzione (e della preoccupazione) di tutto il mondo, in questi giorni del 2022, cioè il conflitto Ucraina-Russia. Non sono un esperto di politica internazionale, e, soprattutto, non ho a disposizione le informazioni necessarie per poter tentare un’analisi anche solo minimamente fondata (sebbene debba aggiungere che anche molti “esperti” del settore, a quanto pare, brancolano nel buio); invece, avendo comunque studiato con attenzione qualche argomento di storia contemporanea, vorrei soffermarmi sulle analogie che sono state proposte tra l’attuale situazione e quelle del 1914 e del 1938, rispettivamente. In particolare, vorrei tentare di rispondere a queste domande: 1) è più fondata l’analogia con il 1914 (giorni immediatamente precedenti lo scoppio della prima guerra mondiale) o con il 1938 (“crisi dei Sudeti”, risolta, apparentemente, con l’accordo di Monaco, che riconosceva l’annessione alla Germania di tale territorio, prevalentemente tedescofono, ma parte integrante della Cecoslovacchia)? 2) Una volta data alla domanda precedente quella che è secondo me la risposta adeguata, cioè il 1914, su che cosa si basa l’analogia tra la situazione di allora e quella attuale? 3) Qual è la lezione che possiamo trarre dall’analogia stabilita?
2022 = 1938 o 2022 = 1914?
Mi pare che la maggior parte dei commentatori e dei politici, tanto negli Stati Uniti quanto nel Regno Unito e nell’Unione europea, identifichi la strategia odierna di Putin con quella di Hitler, la cosiddetta “strategia del domino”: come l’annessione dei Sudeti non fu che il primo passo del tentativo di Hitler di impadronirsi dell’Europa e forse del mondo, così la “difesa” del Donbass e la “denazificazione” dell’Ucraina sono un puro pretesto di Putin per impadronirsi di questo Paese, con l’obiettivo di estendere successivamente il suo dominio ad altre Repubbliche ex sovietiche (Estonia, Lettonia, Lituania, Moldavia, Armenia, Georgia) e poi, forse, all’intera Europa. Quindi, al contrario di quanto fu deciso nel 1938 a Monaco, bisogna dire di no a qualunque richiesta di Putin, perché una volta che gli si è ceduto sul Donbass, poi si impadronirà di Kiev installandovi un governo fantoccio (come fece Hitler occupando Boemia e Moravia nel marzo 1939), poi occuperà le Repubbliche baltiche, ecc.
Quasi sessant’anni fa, lo storico americano Arthur M. Schlesinger, tra l’altro già collaboratore di Kennedy, osservava che l’ossessione per la “strategia del domino” aveva condotto gli Stati Uniti a impantanarsi nell’avventura vietnamita: la lezione del Vietnam dovrebbe quindi renderci molto prudenti nell’identificare qualunque situazione di tensione, e anche qualunque tentativo di aggressione, come l’azione di un clone di Hitler. Quindi, anzitutto, bisognerebbe non dare per scontato che Putin abbia quei disegni imperialistici che gli si attribuiscono: certo, se l’equazione tra il dittatore nazista e l’autocrate del Cremlino fosse totale, la guerra sarebbe inevitabile, e sarebbe la terza guerra mondiale. Siamo disposti ad accettarla, con tutte le sue possibili conseguenze?
Tuttavia, anche prescindendo dalla validità o meno dell’equazione Putin=Hitler, è l’analogia con il 1938 che appare fuorviante: com’è stato tante volte osservato, la prima e la seconda guerra mondiale non sono state che un’unica guerra, interrotta da una ventina d’anni di armistizio. Le azioni di Hitler, fino al 1939 (come anche la sua ascesa, del resto), vanno collocate e spiegate in questo scenario apparentemente di pace, ma in realtà semplicemente armistiziale. La situazione attuale sembra molto più simile a quella del 1914. Proviamo a illustrare qualche aspetto di questa analogia.
Un primo aspetto riguarda la grande ascesa economica e tecnologica tra il 1870 e il 1914; allo stesso modo, il mondo di oggi (o almeno il “Nord del mondo”, ma anche parte del “Sud”, se si pensa a Paesi come la Corea del Sud, la Cina, o la stessa India) ha conosciuto uno straordinario sviluppo in termini economici, certo non privo di momenti di crisi (l’ultima, quella originata dai mutui subprimes negli Stati Uniti una quindicina di anni fa) e causa di enormi disuguaglianze sociali, nonché di gravissimi danni ambientali. Tra i due contesti, poi, troviamo queste ulteriori analogie: 1) uno Stato in decadenza, timoroso di dissolversi (l’Austria-Ungheria nel 1914, la Russia oggi), vive da tempo in una situazione di tensione con uno Stato di indipendenza recente, pervaso da forti correnti nazionalistiche (la Serbia nel 1914, l’Ucraina nel 2022) e decide di aggredirlo; lo Stato aggredito è appoggiato da vari altri Stati che vedono di buon occhio il crollo dell’aggressore (Russia e Francia nel 1914; Stati Uniti, Gran Bretagna e Unione europea oggi). 2) Un altro Stato ha raggiunto da poco un enorme potere economico e anche militare (la Germania nel 1914, la Cina oggi) suscitando la preoccupazione di uno Stato già egemone e timoroso di perdere la propria egemonia (la Gran Bretagna nel 1914, gli Stati Uniti oggi). Naturalmente, i due quadri non sono completamente sovrapponibili: del resto, come abbiamo già detto, i fenomeni storici non hanno la stessa caratteristica di uniformità di quelli naturali. Per esempio, non c’è oggi uno Stato che abbia un ruolo facilmente assimilabile a quello della Francia nel 1914; per quanto riguarda la Gran Bretagna, invece, tenendo presente la valutazione espressa qualche anno fa da Noam Chomsky, secondo cui essa godrebbe oggi “della stessa autonomia dagli Stati Uniti di cui godeva l’Ucraina nei confronti dell’Urss, ai tempi di quest’ultima”, possiamo considerarla un’appendice dell’alleato americano.
Gli avvenimenti del 1914 sono talmente noti che basterà ricordarli in poche righe. La Russia si schierò al fianco della Serbia, e a quel punto la Germania, fedele all’alleanza con l’Austria-Ungheria e desiderosa di sfruttare la propria forza economica e militare, decise di entrare in guerra, dichiarandola alla Russia e alla Francia, invadendo il Belgio neutrale e scatenando così l’inevitabile reazione della Gran Bretagna. Quello che sembrava inizialmente un conflitto locale, tra l’Austria-Ungheria e la Serbia, era diventato, in pochi giorni, la prima guerra mondiale. L’analogia tra il contesto attuale e quello del 1914 ci fa seriamente preoccupare che un simile esito nefasto possa riprodursi.
I pericoli di guerra
Naturalmente, la nostra analogia sembra venir meno sotto un punto di vista fondamentale: nel 1914 una tendenza alla guerra era presente, sia pure allo stato latente, in tutti gli Stati coinvolti, già impegnati da vari decenni nella “corsa agli armamenti”; oggi, invece, l’atteggiamento aggressivo sembra caratterizzare soltanto la Russia, mentre tutti gli altri si stringono intorno alla Nato, la cui natura “difensiva” (dimenticando, peraltro, le bombe su Belgrado all’epoca della guerra in Kosovo) viene continuamente ribadita; e il diniego più volte espresso alla creazione di una no fly zone sull’Ucraina sembra confermarlo.
Tuttavia, una nuova corsa agli armamenti è in atto proprio in questi giorni, con l’aumento delle spese militari decise da molti Paesi Nato, tra cui l’Italia. Leggo poi – in un’intervista al nostro ministro della Difesa, pubblicata sul “Corriere della sera” del 18 marzo – che Tony Blair “si chiede se sia giusto dire a Putin che qualsiasi cosa faccia in Ucraina esclude l’uso della forza”, suggerendo così, implicitamente, ma neppure troppo, che un tale uso sia invece da minacciare, se non addirittura da esercitare. E non mi sento di escludere che pulsioni belliciste del genere siano presenti anche in altri ambienti politici e militari, tanto americani quanto europei: i primi, potrebbero sognare di riportare la Russia allo stato di inferiorità politica ed economica tipico dell’epoca di Eltsin; gli altri, forse, pensano che sarebbe l’occasione per ridurre la dipendenza energetica della Unione europea dalla Russia: un trattato di pace simile a quello di Versailles del 1919 potrebbe costringerla a vendere gas ai prezzi imposti dai vincitori. Queste ultime sono, ovviamente, pure speculazioni fantapolitiche; ma veniamo a una domanda fondamentale: se la Nato o altri Paesi occidentali muovessero guerra alla Russia, come si comporterebbe la Cina?
Emma Bonino, già ministro degli Esteri in uno dei passati governi, in un’intervista rilasciata al “Corriere della sera” del 17 marzo, dice di ritenere che “la Cina abbia più interesse a esportare merci verso l’Occidente, piuttosto che ritrovarsi in una guerra boots on the ground contro l’Occidente”. Questa sembra essere anche l’opinione della maggioranza degli osservatori occidentali; ma siamo davvero sicuri che la Cina non si schiererebbe a fianco della Russia, come fece la Germania del 1914 con l’Austria-Ungheria? Se ciò accadesse, le conseguenze sono facilmente immaginabili.
Tralasciamo, comunque, per un momento gli scenari futuribili e torniamo alla realtà di questi giorni, in particolare per quanto riguarda il nostro Paese. La decisione di rifornire di armi l’Ucraina è stata approvata dalla stragrande maggioranza del nostro parlamento e salutata con entusiasmo dai più autorevoli commentatori politici, che hanno immediatamente additato al pubblico ludibrio i pochi che si sono permessi di sollevare delle perplessità; in favore dell’invio di armi all’Ucraina si è espresso anche qualche commentatore equilibrato, come Rino Genovese su “terzogiornale”, con l’argomento non infondato che può trattarsi di un modo per costringere Putin a un accordo. Non si può escludere, però, che tale invio possa essere in qualche caso intercettato dalle truppe russe ai confini dell’Ucraina con Paesi Nato, come la Polonia o la Romania, con l’automatica aggressione anche di questi ultimi, l’altrettanto automatico intervento dell’alleanza atlantica e l’inevitabile conseguenza che esso comporta: lo scoppio della guerra. Inoltre, se è attendibile quanto scrive Tomaso Montanari sul “Fatto quotidiano” del 19 marzo (ma ho sentito formulare ipotesi simili anche da altri), un rapporto della Defense Intelligence Agency americana non esclude che la Russia possa ricorrere all’uso di armi nucleari tattiche per vincere la resistenza ucraina. È curioso che tanti si preoccupino degli eventuali danni che può provocare un bombardamento della vecchia centrale nucleare di Chernobyl, ma non prendano in considerazione le conseguenze del possibile uso delle armi nucleari tattiche, che, anche se dovesse rimanere limitato alla sola Ucraina (il che è comunque piuttosto improbabile), avrebbe certo conseguenze infinitamente più gravi.
In ogni caso, quello che mi pare da evitare è nascondere la testa sotto la sabbia, come fa per esempio Emma Bonino nella sua intervista, nella quale, dopo aver sostenuto che inviare armi all’Ucraina è “doveroso”, afferma che “quello di un nostro coinvolgimento diretto è uno scenario che non voglio considerare”. Bonino fonda questa sua certezza sull’art. 5 dello statuto della Nato, in cui si legge che ciascuno dei Paesi firmatari del patto “assisterà la parte o le parti così attaccate intraprendendo immediatamente, individualmente e di concerto con le altre parti, l’azione che giudicherà necessaria, ivi compreso l’uso della forza armata, per ristabilire e mantenere la sicurezza nella regione dell’Atlantico settentrionale” (tra l’altro, “la regione dell’Atlantico settentrionale” deve essersi ampliata molto, negli ultimi anni, dato che evidentemente la si considera estesa fino al Mar Nero).
Come si fa a essere così sicuri che l’adesione dell’Italia alla Nato escluda a priori un intervento militare? Penso che, come minimo, si assisterebbe a un nuovo scontro tra “interventisti” e “non interventisti”, come nel maggio 1915 (ancora un’analogia con la prima guerra mondiale, dunque), con il successo finale dei primi. Ancora più sorprendente è poi che la Bonino dica di “non voler neppure prendere in considerazione” l’ipotesi di una “apertura della valigetta nucleare da parte di Putin”: tanto più curiosa, questa fiducia, in chi dipinge Putin come un autocrate, se non un pazzo, disposto a tutto pur di realizzare i suoi insani disegni. E chi può escludere che, in caso di guerra, non sia l’Occidente a decidere di ricorrere alle armi nucleari? Truman, per affrettare la fine della seconda guerra mondiale, scagliò due bombe atomiche sul Giappone, ormai inevitabilmente destinato alla sconfitta.
Non posso però che essere del tutto d’accordo con Bonino, quando chiude la sua intervista dicendo che “questa guerra finirà sempre troppo tardi, anche fosse domani”. Cerchiamo dunque di farla finire il più presto possibile, evitando quelle tentazioni belliciste che, forse a volte in modo inconsapevole, hanno portato allo scoppio della prima guerra mondiale, tenendo anche conto della vecchia battuta attribuita a Einstein: “Non so con quali armi sarà combattuta la terza guerra mondiale, ma sono certo che la quarta sarà combattuta a sassate”.