Non sorprende il recentissimo viaggio in Russia del premier israeliano Naftali Bennett, supportato dal ministro dell’Edilizia Zeev Elkin, di origine ucraina, che ha fatto da traduttore. Un tour effettuato nell’ambito di un viaggio più ampio, durante il quale ha incontrato anche il cancelliere tedesco Olaf Scholz a Berlino, mentre con il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, ci sono stati dei colloqui telefonici. Primo leader politico a incontrare il presidente russo Vladimir Putin, dall’inizio della guerra contro l’Ucraina, il capo del governo dello Stato ebraico, nonché leader del partito Nuova destra, ha detto che “Israele ha l’obbligo morale di cercare di porre fine alla sofferenza umana nella guerra in Ucraina”. Certo un obbligo, perché lo Stato nato nel 1948, e subito riconosciuto dall’Unione sovietica, è una parte importante del mondo russofono: in esso vivono stabilmente molti russi, circa un milione, arrivati dopo la caduta del Muro di Berlino, aggiunti alle centinaia di migliaia già presenti da decenni nel Paese mediorientale. Mentre, dal canto loro, centomila cittadini israeliani vivono in Russia, di cui almeno un terzo di origine ucraina: elemento, questo, che contribuisce a rendere eccellenti le relazioni con Kiev, al punto da spingere lo stesso Zelensky a chiedere l’intervento di Tel Aviv.
La lingua russa è la terza più parlata in Israele dopo l’ebraico e l’arabo. Uno scenario che ha prodotto addirittura un partito “russo”, Yisrael Beytenu (“Israele casa nostra”), guidato dall’attuale ministro delle Finanze Avigdor Lieberman, anch’egli un esponente della variegata galassia della destra presente nella Knesset, il parlamento di Israele. Il primo gruppo di ebrei, arrivato dall’Urss negli anni Settanta durante l’era Breznev, era composto da centotrentamila persone, quasi tutti dissidenti, che si sono integrati abbastanza rapidamente nella società israeliana. Tra questi, anche il matematico Natan Sharansky, già collaboratore di Andrei Sacharov, liberato a Berlino Ovest, attraverso il famoso Ponte di Glienicke, in cambio di due spie sovietiche. Vicenda a cui si ispirò Steven Spielberg per il film Il ponte delle spie. La seconda ondata risale ai tempi della Perestroika, quando arrivarono in Israele circa novecentomila persone, molte delle quali fuggivano dalle problematiche condizioni di vita in Russia, nella difficile fase post-sovietica.
Gruppi importanti di questi ebrei russofoni si adoperarono per rendere note, attraverso scuole e centri culturali, le proprie radici ebraiche. Va ricordato che l’antisemitismo, in Russia, è stato presente fin dai tempi degli zar e continuò, sia pure in modo non ufficiale, durante tutta l’era comunista. Bisognerà aspettare il 22 febbraio del 1981 per sentire Breznev, in un discorso, puntare l’indice contro la discriminazione nei confronti degli ebrei. Tuttavia, non sempre la condizione degli ebrei russi in Israele è stata delle migliori, non lo è neanche oggi. I settori più ortodossi non li amano. Anche perché molti sono emigrati grazie alla “legge del ritorno”, che riconosce tale diritto al coniuge di un ebreo o di un’ebrea e ai figli, e a chi ha avuto almeno un nonno ebreo. Si calcola che circa il 20% degli immigrati provenienti dalla Russia non sia affatto ebreo, ma si sia procurato questa identità.
D’obbligo la domanda sul rapporto tra gli ebrei russi e la drammatica questione israelo-palestinese. Una relazione che cambia a seconda della fase storica. Nella prima, relativa alla costruzione dello Stato d’Israele, molti ebrei provenivano dall’Urss, erano laici ashkenaziti, legati a quei valori socialisti che diedero vita al Partito laburista, fautore del processo di pace avviato da Rabin, Peres e Arafat, poi fallito miseramente. Al contrario, gli ebrei della seconda ondata sono ben lontani dall’idea di un possibile dialogo con i palestinesi, e sono tutti molto vicini alle formazioni dell’estrema destra israeliana, come Israel Bel-Aliya, fondato proprio da Natan Sharansky (a suo tempo vice primo ministro, durante il governo del premier Ariel Sharon), Mahar, un partito laico di centro, nato dalla scissione di Israel-Be-Aliya e Yisrael Beytenu, formazione nazionalista decisamente di destra, il cui leader è il ministro Avigdor Lieberman.
Questo scenario fa capire perché Bennett si sia sentito in dovere di intervenire, in quanto – ha sottolineato il premier israeliano – “ci sono israeliani che sono lì e che hanno bisogno di tornare a casa e comunità ebraiche in difficoltà che hanno bisogno di aiuto”. Proprio l’arrivo di una importante immigrazione ebraica dall’Ucraina – uno degli argomenti trattati nel corso dell’incontro con il capo del Cremlino – rappresenta una delle tante preoccupazioni di Bennett.
Nel frattempo il Mashav, l’agenzia israeliana per lo sviluppo e gli aiuti, si è attivata con urgenza al fine di realizzare un centro di assistenza per i rifugiati, che servirà tutti gli ucraini in fuga dalla guerra, ebrei o meno, fornendo loro equipaggiamento invernale, tende, coperte, medicine, cibo. In un’intervista rilasciata al “Foglio” Ron Ben Yishai, giornalista storico del principale quotidiano israeliano“Yedioth Ahronoth”, sintetizza bene il ruolo che vuole assumere Israele nella guerra in corso tra la Russia e l’Ucraina. “Israele – dice – vuole essere dalla parte giusta della storia, l’Ucraina, ma allo stesso tempo non vuole distruggere il suo rapporto e coordinamento con i russi e le loro forze in Siria, che aiutano molto Israele a non finire nei guai”.
La questione siriana emerge anche nelle parole di Yossi Kuperwasser del Jerusalem Center for Public Affairs: “Se possiamo contribuire a mettere fine a questa tragedia, lo faremo. Questa invasione russa deve essere condannata, per questo abbiamo votato contro i russi all’Onu, ma allo stesso tempo – continua – non vogliamo un confronto con la Russia, che è presente in Siria, dove ci sono Hezbollah e l’Iran. E Israele ha bisogno della sua libertà di movimento”.
A proposito di Medio Oriente: che la questione palestinese possa trovare spazio nel bel mezzo di un conflitto che fa tremare i polsi a mezzo mondo, è altamente improbabile. È noto che molti ebrei russi sono diventati con il tempo coloni, occupanti di terre palestinesi, violenti per definizione contro chi abita quella terra da sempre. Un conflitto senza fine, questo, che rischia, con tutte le differenze del caso, di essere emulato da chi combatte nelle pianure ucraine. Il pessimismo è d’obbligo. Altro che “fine della storia” come profetizzò, sbagliando clamorosamente, il politologo Francis Fukuyama. L’illusione che la storia potesse finire con la vittoria della democrazia liberale si infrange, da decenni, contro le macerie di un mondo che combatte – dall’Africa all’Iraq, dall’Ucraina all’Afghanistan –, senza che si profili all’orizzonte alcuna pace duratura.